Non sottovalutare le conseguenze dello storytelling

Una delle parole di questo millennio è sicuramente ‘storytelling’ e non c’è da stupirsene perché dispositivi potenti, perversi e al tempo poco conosciuti, se non da un manipolo di studiosi virtuosi, sono stati messi in atto, influenzandole o distruggendole, intere società. I totalitarismi usavano un tipo di storytelling che ha plasmato la geopolitca e le società di cui la nostra è erede, poi è arrivato il marketing a rivenderci e propinarci, insieme alle relazioni pubbliche attuate in un’Italia post bellica dal modello imperialista, modelli di vita e prodotti. E’ il caso dei modelli proposti dal cinema americano ad un’Italia in ricostruzione e poi a tutto il blocco occidentale che dovevano scongiurare la minaccia comunista educando ad un altro assetto cognitivo e immaginifico di società; è il caso dei grandi marchi che hanno creato narrazioni innalzando ad idoli o facendoli cadere, prodotti di qualsiasi tipo. Menzioniamo nel calderone anche lo storytelling messo in atto dall’esercito USA per reclutare prima e formare poi le forze armate (i video giochi a realtà aumentata sono usati da lungi per immergere i militari in casi tipo – una delle accellerazioni del dispositivo storytelling più incredibili della fine del millennio). (Cfr. Christian Salmon, Storytelling.) Ma c’è qualcosa che viene ancora prima del secolo breve e delle sue vicende. Ci sono le storie e c’è l’attitudine cognitiva a interpretare la realtà sotto forma di storie da parte dei Sapiens. I miti antichi diventano riti e matrici narrative che servono a interpretare la vicenda umana e a indirizzarla. Le matrici narrative sono gli archetipi che tutt’ora ci portiamo dietro: pedine di una scacchiera che le società muovono, adattandole, al proprio tempo, ai propri valori. Le forme narrative non sono esclusivo appannaggio del linguaggio verbale (scritto o orale) ma riguardano anche le immagini. Anzi, in virtù delle loro qualità, le immagini agiscono in modo più profondo, perché inconscio, non decifrato, almeno non del tutto, attraverso il linguaggio verbale. Lo sapevano e lo sanno gli operatori delle relazioni pubbliche, della propaganda e del marketing. Forse siamo noi che ‘non lo sappiamo’. Non lo sappiamo nel senso che lo sappiamo ma riguarda sempre gli altri, mai noi medesimi. E questa cosa si riversa nella produzione e nella fruizione della fotografia. Il nostro mondo fotografico è impostato sul culto dell’autore e di un generico culto del talento, basato sulla qualità delle narrazioni proposte. Un sistema basato – detto in un’unica parola – sull’ego non può che giocare al ribasso. Ho scritto altrove sul culto dell’autore e non lo rispiegherò qui piuttosto parlo delle storie, delle storie per immagini e del becero buon senso comune che ci muove in fotografia (che comunque non è slegato dal suddetto culto). La nostra educazione alle immagini è dettata dall’estetica sì, ma anche dal nostro grado di preparazione riguardo le storie. Fermo restando che una buona serie di foto resti buona anche se basata sul ‘buon senso’, quello che ci imbriglia nelle maglie della storia e di conseguenza del suo autore, generandone un culto dove basta che faccia un ruttino ed è letteralmente perseguitato dai like e da seguaci, è il non riuscire a sollevarci dalla bidimensionalità di quella serie di foto. Le storie sono nostre perché appartengono alla vita, quindi laddove un buon narratore riesce a restituire emozioni, storie anche difficili agli altri, insomma, laddove un fotografo-narratore riesca a restituire la vita attraverso le immagini, ci cadiamo con tutti i panni. Mi permetto di consigliare di fare attenzione sulle cosiddette ‘storie intime’, storie degli ultimi, storie oscure. Non che non vadano bene ma c’è da fare attenzione al buonismo dietro l’angolo che ci ammalia, ‘il poverino’ non accresce né diminuisce il nostro grado di umanità, e non ci aiuta nemmeno all’atto pratico. Dopo aver guardato queste storie, oltre che una presunta consapevolezza riguardo la tematica che propongono, come siamo migliorati, cosa facciamo, anche, all’atto pratico? Niente, vero? Certo, un po’ per forza di cose ma il punto è che non ci accrescono a livello cognitivo, anzi, ci fanno venire una voglia perversa di consumare ancora e ancora storie di oscurità, storie intime o tragiche. Non c’è niente da fare, le storie ‘oscure’ ci piacciono perché ci muovono emozioni che nella vita normale censuriamo e perché riguardano altri da noi. Sono meccanismi cognitivi. (Cfr. Johnatan Gottshall, Il lato oscuro delle storie.) Non c’è niente di male in questo, il punto è che ci basta, ci fermiamo lì. E alimentiamo la produzione di immagini e storie uguali alle altre. La fotografia è un potente strumento antropologico perché attraverso di essa i Sapiens si raccontano, si conoscono e riconoscono, si spiegano. E fin qui tutto bene, il punto è che spesso una buona storia-serie finisce lì. Se solo ci sollevassimo a chiederci a immaginare, se solo conoscessimo il meccanismo – cognitivo e di sistema – che ci imbriglia. La scuola di Francoforte parlava di modelli prestabiliti, ad esempio nella musica, che diventavano propinabili alla ‘società dello spettacolo’: musica in 4/4 frasi corte e rimate, temi nazional popolari come l’amore. Ed ecco la canzonetta confezionata – noi in Italia ci campiamo San Remo non so più da quanti anni e da un decennio festival di fotografia piccoli e medio piccoli che non hanno senso di esistere proprio perché offrono modelli già visti, alimentano ego di amatori che foraggiano l’intera macchina. In fotografia, nel mondo delle immagini e delle storie funziona esattamente così. Ed ecco che frotte di ingenui romantici restano imbrigliati nelle maglie di storie-immagini belle ma normodotate, ecco che il culto dell’autore viene sospinto in alto nei cieli ed ecco che chi si approccia alle immagini ha in testa (magari anche a livello inconsapevole) solo una cosa: replicare il proprio mito. Del resto è dalla notte dei tempi che i Sapiens replicano i miti attraverso i riti e questo rientrerebbe anche nella capacità in dotazione alla specie. Tuttavia, perseguire la via dell’ignoranza ha un limite che diventa connivenza colpevole, un limite che porta all’involuzione. Conoscere come i dispositivi narrativi funzionano, come possano essere sperimentati attraverso storie di ricerca e rottura meta-storie, dove l’autore riflette sul linguaggio e le storie che usa,  potrebbe essere socialmente formativo e utile a non essere schiavi, quali siamo, del buon senso comune, aiuterebbe a districarci, non solo tra le immagini ma tra le parole di tutti i sedicenti editorialisti, opinionisti, e propinatori del buon senso a vario titolo che ci hanno colonizzato le home page e la vita. Chi è in grado, anche tra chi ha una formazione medio alta, di smontare pezzo per pezzo un articolo di giornale, partendo dalla logica, chi è in grado di contestualizzare una storia fotografica, conoscendola e, finalmente, canalizzandola dentro un sistema più ampio che non di certo le toglie potere ma gli dà ciò che gli spetta? Pochi e non solo e tanto perché non approfondiamo ciò di cui ci riempiamo la bocca (lo storytelling) ma perché siamo adagiati nella pian di marea ingurgitando e risputando contenuti senza uno spirito critico di qualche sorta. Anche i più studiati sono ormai plasmati da questa livella. Conoscere i meccanismi delle storie ci aiuta a non esserne schiavi ad accettare le opere che ci capitano senza strapparsi i capelli. Vedere le cose da una giusta prospettiva vuol dire non essere succubi del trafiletto dell’editorialista o della storia fotografica strappalacrime dandogli una corretta dignità spingendoci, però, a fare quel passo evolutivo in più, come fruitori e anche produttori di fototesti. Sì, fototesti perché con i Social li usiamo tutti, ne siamo pervasi, come consumatori e produttori e non ne siamo minimamente preparati. Contestualizzare e darci un contesto, eviterebbe il culto dell’ego, anche del nostro, aiuterebbe a restituirci quel senso di ricerca e scoperta attraverso la fotografia, permettendole di continuare a rendere un servizio alla specie e non di inquinare, come sta succedendo attualmente, la fotografia autoriale e para-autoriale di schiere di piccoli emuli. Per par condicio va detta una cosa: è il culto dell’ego, dettato da questa profonda ignoranza sistemica che permette a tutto questo di circolare: si gioca al ribasso perché è quello che funziona. Ogni storia ha diritto di esistere ma nel momento in cui le si dà un contesto consono in cui vivere e dispiegarsi. Ecco, al sistema non gli frega niente di questo quindi la palla torna agli autori, ai piccoli emuli: sta a noi-coraggio alla mano (coraggio di non essere accettati ma altresì di proporre strade migliori) di alzarci, studiare e fotografare. So che è un appello che resterà inascoltato perché la sfida di specie è ego (leggi sopravvivenza) vs evoluzione creatrice ed è una battaglia che se va bene è sempre pari.

Storytelling

Per raccontare serve il desiderio di farlo. Alla base delle storie c’è un principio di condivisione altrimenti non hanno senso. Perché? Perché la capacità narrativa dei Sapiens è un collante cognitivo esattamente come l’immaginazione: è attraverso queste due capacità che ci siamo evoluti, che abbiamo strutturato i linguaggi che padroneggiamo. E non per velleità ma per sopravvivenza. Tant’è che reputiamo le società primitive evolute quando scoviamo i resti delle loro rappresentazioni artistiche. Perché? Perché il livello simbolico implica una società che non comunica solo per procacciarsi il cibo ma che condivide dei sapere mete-fisici e ciò vuol dire che ha una qualità della vita che gli permette di sviluppare queste capacità. Joseph Campbell, e non è l’unico, parla di arte  e di arte pornografica. L’arte pornografica è quella che ha una qualche utilità (esempio la pubblicità, il cinema). Raccontare è partecipare il mondo e non avere stimoli nel farlo vuol dire non sentirsi la voglia di condividere. In un mondo che corre alla velocità dei feed non è sbagliato darsi tempo e accettare l’andamento d’animo nel condividere-raccontare. Il contrario, infatti è narrare compulsivamente, narrare al solo scopo di ‘darlo a vedere’ agli altri. Questo è un bisogno indotto, è un po’ come la differenza tra arte e arte pornografica. Questa cosa del conoscersi e del darsi tempo, vale per chi racconta del proprio lavoro, e vale soprattutto in sede creativa e progettuale. Dopo la spinta a voler realizzare una storia c’è un mondo che non si vede, fatto di studio, di tempi morti, di riflessione. Spesso i fotografi prima di ‘dare in pasto’ una storia al mondo, prima di raffinarla, hanno bisogno di digerire le foto raccolte, quasi di dimenticarsene. Parimenti, anche chi è preso dal proprio racconto, ha bisogno di tempo per dargli una forma, come anche alcune cose, specie riguardanti il dietro le quinte, accade di raccontarle di pancia. 

 

Archetipi, storytelling e fotografia

Le forme narrative canoniche condizionano il nostro vissuto, anche dal punto di vista cognitivo. Le forme narrative canoniche il relativo schema narrativo sono ben consolidati nella nostra cultura, lo è meno il legame che intercorre tra queste e gli archetipi. Sebbene anche essi godano di un largo uso-consumo culturale, che li indica come ‘immagini più o meno condivise e scambiate, giacenti nell’inconscio collettivo’, poco si parla del loro legame con lo storytelling e quindi con le forme narrative canoniche e il relativo schema.

Gli archetipi racchiudono delle ‘energie’ primordiali’, dei caratteri e degli umori ricorrenti nell’umanità e spesso vengono trasformati e trasmessi in simboli, che trascendono le parole e sono facilmente trasportabili nello spazio-tempo, come le metafore.

J, Hillman dice che gli archetipi in origine sono miti e dei. Se ripercorriamo lo sviluppo delle forme narrative e della narrazione che si è consolidata fino a noi possiamo ricostruire, per sommi capi, queste tappe: evento/umore/dato = archetipo = mito/rito.

‘Gli dei da matrici rituali sono diventati matrici narrative’ (cfr. J. Weston). Se i miti spiegano attraverso forme narrative eventi, mondi e situazioni, i riti mettevano in scena queste ‘storie’: un ulteriore passo narrativo che implicava qualcuno che ‘facesse come se’ fosse il dio in questione o comunque uno degli agenti le vicende del mito.

I miti e i riti hanno fornito, quindi, non solo chiavi di lettura e interpretazione del mondo e dell’umano ma anche gli schemi narratiti entro i quali far scorrere le narrazioni. Alla base c’è sempre un archetipo, significante o significato che sia, che si trasmette nel tempo, evolvendosi e plasmando persone, gruppi e culture. Appare scontato pensare di usare lo storytelling in fotografia, o quantomeno spontaneo, almeno per un certo tipo di fotografia. Quello che occorre per non scadere nel blasonato e nella banalità è farlo con la consapevolezza non più e soltanto, dalle basi della narratologia ma forti delle energie alla base. Il vantaggio, una volta raggiunta una certa consapevolezza, è riuscire a creare narrazioni forti, consce e universali. Lo svantaggio, come avviene quando ci si appella allo storytelling, è di prendere il primo simbolo che ci viene in mente e schiaffarlo sulle foto. La conoscenza fotografica è un naturale processo di prove ed errori, la reiterazione della banalità diventa reato, ad un certo punto. Quanto più il fotografo è consapevole delle cose, tanto più sarà facile per lui amalgamare significati, anche senza dove per forza creare simbologie o immagini ‘staged’. Se come pensi fotografi allora anche come e quanto conosci fotografi e prima ancora sei in grado di non cadere vittima delle storie, andando poi a crearne altre a immagine e somiglianza delle storie che ti hanno rapito. Padroneggiare lo storytelling vuol dire questo, anzitutto: non essere vittime delle storie che ci vengono sottoposte. Essere consapevoli di quali storie l’immaginario sapiens va ghiotto e anche perché. E tutto questo è prima delle immagini, è questione di forme e contenuti, di teoria della narrazione. Conoscere lo storytelling e praticare lo storytelling fotografico vuol dire questo.

 

Storytelling e leoni da tastiera

A livello professionale è importante avere un’idea di ciò che si condivide, di ciò che si racconta e come lo si fa. Va anzitutto assecondata la propria indole. C’è chi racconta solo la propria gloria, chi condivide e basta le storie e le condivisioni che si fanno di lui-lei, e chi, invece, ha un’attitudine più da cantastorie e ama condividere il suo mondo, ciò che sta dietro il proprio lavoro, proporre riflessioni, anche, creare rete, lanciare dibattiti aperti volti alla crescita e lo scambio. Chi ignora – giudicando – il fatto che dietro i social, specialmente dei professionisti, c’è un mondo di studio, approfondimento e lavoro, ignora largamente anche quanto ogni professionista scelga, cosa e come raccontare e quando. Tutto questo implica delle competenze che non hanno per nulla a che fare con la visibilità – nel senso egoico del termine – quanto proprio con l’accantonamento dell’ego e l’umiltà e l’atteggiamento di mettersi al servizio degli altri, con una professionalità che si coltiva tutti i giorni. Avete mai pensato a quante competenze bisogna avere per riuscire a catturare quella visibilità che spesso si rinfaccia ai professionisti? Qualche infarinatura di Social Media Marketing (che si aggiorna a ogni lunazione, a volergli star dietro, perché i Social sono dei Blob in continua evoluzione), un’infarinatura di scrittura: da quella professionale a quella adatta al Web e ai Social – doti di scrittura, esattamente quelle che usa chi commenta criticando e sputando astio sugli altri, ecco se usassero questa capacità scrittoria per metterla al servizio degli altri anziché per sputare sentenze farebbero un servizio al mondo, invece sono uno dei grandi mali del nostro tempo. Perché certi ambienti fotografici sono solo capaci di raccogliere questi derelitti umani e fotografici? Perché quando la fotografia è affrontata con ego non è un servizio, è un’arma rivolta verso gli altri. Tra le altre competenze c’è quella di capire chi si è, dove si vuole arrivare, cosa si vuole comunicare e come. E le competenze sui visual? Capire quale identità visiva – capisco che chi critica potrebbe non sapere cosa sia –  rispecchia il nostro modo di stare nel mondo come professionisti e soprattutto, poter fornire un equivalente servizio anche off line. Tutte queste competenze devono reggere on e off line, vorrei sapere se chi critica ha le palle di offrire questo servizio di coerenza e consapevolezza ah, e di professionalità. Ecco, noi possiamo parlare di storytelling riferendoci al mondo dei fotografi, ma dato che la fotografia è un mezzo che dipende dall’uso che se ne fa, e dato che anche nei social, noi usiamo la fotografia per i più disparati scopi, non è barbino pensare che dietro ad un professionista ci siano tutte queste competenze e che, ugualmente, lo storytelling non è una cosa: è l’arte di raccontare storie, dal marketing alla fotografia, alla letteratura alla pubblicità alla televisione. Quindi, di cosa parliamo quando parliamo di fotografia, se non specifichiamo a che riguardo? La stessa domanda vale per l’arte di raccontare storie. Il professionista che si racconta sui social può sfruttare queste competenze in un modo che non ci piace, possiamo non capirle o non conoscerle (soprattutto), ma basta di sparare a zero: se dei social conosciamo solo la parte nazional popolare che li vuole come un vuoto contenitore di visibilità, e pensiamo che sia solo pieno di scansafatiche, beh, facciamo una vita misera e probabilmente sui social ci stiamo proprio perché siamo poveri e non conosciamo oltre l’orizzonte del nostro naso. Dunque, a chi critica chiediamo: voi che siete così capiti, sui social, cosa ci state a fare? E soprattutto cosa avete fatto di meglio dei professionisti che andate criticando nei commenti? Imparate ad argomentare, esulando dalle critiche tecniche – saranno pertinenti, poi? Chi ci dice che avete le giuste competenze e non state tirando a caso? Portate contenuti etici, umani, conoscenze. Criticare elencando i difetti è qualcosa che è rimasto esclusivamente a questa categoria di persone, probabilmente assuefatti e assecondati da una certa forma cognitiva e da una retorica dettata dall’agenda dei media, perché si comportano allo stesso modo dei presunti commentatori di giornali e tv. Mai nessuno che offre argomenti e spunti. Criticare senza argomenti, senza offrire un cambiamento vuole dire una sola cosa: vi serve uno bravo. 

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