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Di seguito, alcune delle esercitazioni e dei progetti finali realizzati dai partecipanti ai laboratori di fotografia.

Tutti i testi sono di Valeria Pierini, salvo dove diversamente specificato.

Tutoring one to one

Tutoring di editing con Linda De Luca

La certezza del desiderio

C’è una scena ne ‘Il cielo sopra Berlino’ dove Damiel sfiora la pelle ‘a colori’ di Marion.

Lei non può vederlo, né sentire quel tocco, ma noi possiamo intuire che si celi un desiderio, da parte dell’angelo, di essere nell’immanenza del mondo, senza restare più – fosse anche per un attimo – nell’eterno, come gli è dato stare dall’inizio dei tempi. 

Il desiderio è ciò che muove le azioni degli angeli, degli uomini e anche degli orchi.

Che sia dettato da fratture nel corso dello svolgersi delle nostre storie, che sia dettato da una perversione o, semplicemente, da un moto sincero verso qualcosa o qualcuno, il desiderio sposta gli esseri dalla Terra alla Luna. E laddove nelle storie che raccontiamo non si danno giudizi o, semplicemente, si osservano i fatti, i confini sono labili: bene e male, vouyerismo ed erotismo caccia o ballo a due, chissà. La lettura che ne diamo non serve, però, a far trapelare il desiderio, che sia di riscatto, di vicinanza o di passione. Questo deborda, da un maglione a collo alto, come da un mazzo di carote.

Qui si dice e non si dice, al contempo, in modo esplicito. Le foto di Linda De Luca sono dirette pur quando si muove nel fantastico, nell’ipotetico. Il rapporto di Linda De Luca con il vedere è tutt’uno con la sua condizione: i suoi filtri sono parte del suo mondo terreno e fisico, ed è per questo che, nella sua forma migliore, Linda De Luca parla sempre in modo esplicito, anche senza dare giudizi o connotazioni. Raccontare storie, a volte favole, quindi muoversi nel fantastico, senza indorare pillole, è la caratteristica di questa autrice che ha la capacità di mostrarci la delicatezza e la forza di una carezza, come di uno schiaffo.

Tutoring one to one
Tutoring di editing con Anna Toni.

Anna ci ha sconvolto. Quando ci ha portato il suo portfolio siamo stati invasi da una ventata di creatività come mai prima d’ora. Insieme abbiamo fatto l’editing ai suoi lavori, che avevano bisogno di essere solo ‘confezionati’. Di Anna ci ha colpito la versatilità con cui affronta i temi di volta in volta svolti, la semplicità e la spontaneità nell’uso di materiali e tecniche, il sapore artigianale che anziché fissarsi sulla tecnica lavora con quello che ha.

Anna è la riprova di quello che sosteniamo: l’arte deve essere una cosa semplice, il proprio genio (ognuno lo ha) va lasciato fluire a Anna fluisce. Il piacere, poi, di dare voce e luce e una finalizzazione ai frutti quel genio sarà solo un nostro grande piacere.

La nostra collaborazione con Anna non finisce qui e chissà che non ne sentiate e vediate delle belle nell’immediato futuro!
Grazie Anna, grazie per avere aperto a me e ai colleghi di Incontri di fotografia, il tuo mondo prezioso.
 
Cuore di pietra
 

‘Il denominatore comune dell’evoluzione storico sociale ed economica di una comunità di origini antichissime che mantiene aspetti caratteriali, professionali e culturali propri di quel contesto “E’ straordinario il fatto che l’identità e la capacità di un popolo si sia costruito intorno al simbolo della ruota intesa come cammino incessante, andare avanti e trasportare la risorsa preziosa per vivere: il marmo”. Il marmo di Carrara formato nei millenni sulle Alpi Apuane rappresenta un profondo legame tra uomo e natura, tra il cavatore e la cava. Lavoratori tenaci, dal linguaggio colorito e dissacrante, bestemmiatori e bevitori, dal carattere rude e spirito anarchico, che di generazione in generazione ha tramandato conoscenze e orgoglio per un lavoro che “vuole sangue”. E di sangue il marmo ne ha fatto scorrere tanto che a Carrara esiste un monumento che ricorda i caduti della guerra insieme a quelli del marmo e sono tanti. Intorno al distacco dei blocchi di marmo fino al loro trasporto si realizza, dunque, una cultura peculiare della gente di Carrara e degli artisti che vi stabiliscono i loro studi. Ai diversi livelli, dal cavatore, al camionista, allo scultore, si formano professionalità rare e preziose, impegnate in processi creativi riconosciuti ovunque e in una costante ricerca di innovazione producendo ricadute sul territorio in termini sociali ed economici.

Nel raggio di pochi chilometri si realizza una straordinaria sinergia tra natura e lavoro umano, tra montagna, città e mare per creare qualcosa di ancora più straordinario che percorre da secoli mari e strade di tutto il mondo.
Per tutti questi motivi il marmo, la sua storia, la sua gente, i suoi percorsi rendono questa realtà unica al mondo.’ Anna Toni.
 
Un segno nello spazio
 
‘Forse il più sconosciuto dei mondi, il nostro.
“Io una volta feci un segno in un punto dello spazio, apposta per poterlo ritrovare duecento milioni di anni dopo…”
(Italo Calvino, Un segno nello spazio in Le Cosmicomiche).
Lasciare una traccia di sé è una tentazione umana per riconoscersi come originale in un mondo fatto di tanti altri umani.
Ma anche una ricerca di continuità e di eternità propria di ogni essere vivente, attraverso un viaggio verso mondi inesplorati per arrivare a scoprire forse il più sconosciuto dei mondi: il nostro.’ Anna Toni.
Cartoline del futuro
 
‘Ho immaginato un salto temporale nel futuro ed ho trovato un mondo sull’orlo dell’apocalisse, caratterizzato da piogge acide e fatica alla sopravvivenza. Una realtà, resa più complessa dai conflitti, che non avrei mai immaginato anche se i segnali arrivano sempre più chiari nel nostro ambiente di vita.
Ho pensato di spedire delle cartoline da quel mondo per ricordare che negare l’evidenza o soccombere alla paura non aiuta ad agire con consapevolezza.
Queste sono le cartoline di una realtà che potrebbe apparire un giorno se l’umanità non intraprende da subito azioni di cambiamento veramente efficaci. Ma la realtà di oggi sembra già superare l’immaginazione.
Ho scattato foto, in cui appare predominante la natura, le ho stampate e poi poi trattate con acidi mescolati a diversi colori per raggiungere l’effetto voluto. Le ho successivamente rifotografate e…inviate.’ Anna Toni.
 

Visibili presenze

Tempo presente e tempo passato / sono forse entrambi presenti / nel tempo futuro e il tempo futuro / è contenuto nel tempo passato.”

T. S. Elliot

‘Noi siamo la sintesi di tutte le persone che abbiamo incontrato nel passato e le ritroviamo quotidianamente nei nostri gesti, nei sogni, nelle scelte della vita reale, nei tratti somatici. La loro esperienza ha fatto di me quello che sono. In questo spazio-tempo le percepisco presenti e parte della mia realtà personale.

Ho recuperato dalla preziosa scatola delle foto le immagini delle persone speciali per me. Le ho avvicinate colorando i loro ritratti con acquerelli, fotografandomi insieme a loro e aggiungendo a volte piccoli ricordi.’ Anna Toni.

Cantami o Musa – Laboratorio di lettura e fotografia

Gli appunti realizzati durante Cantami o Musa – dalla lettura alla fotografia, da Saura Bianchi

Simona Serra e Serena Fantini.

Appunti e moodboard che parlano delle suggestioni più significative ricevute durante gli incontri dove abbiamo incontrato scrittori e poeti diversi, unitamente all’arte e alle commistioni del loro tempo. Ogni autore ci ha aperto un universo, anche spaventato ma l’invito che abbiamo rivolto alle partecipanti al corso era don’t panic. Non esiste un’arte difficile e una facile, esiste ciò che comunica con la nostra anima e ciò che riusciamo a trasformare in qualcosa di nostro, che parli di noi, alla nostra maniera. 

Ecco perché questo percorso di lettura e fotografia si chiude non con progetti definiti ma con delle possibilità, di lettura di sé stessi e del mondo, e poi, forse, come future opere definite.

Siamo orgogliosi delle corsiste perché hanno proprio lavorato su ciò che le ha anzitutto stupite e anche spaventate, perché laddove c’è una resistenza, lì c’è un messaggio sul quale lavorare. E allora ecco che ogni scrittore incontrato diventa una chiave di lettura per i vissuti di ognuna. 

‘Chi lo avrebbe mai detto?’, è stata la frase con la quale la maggior parte delle corsiste ci ha salutato.

Summer School
Benedetta Pasquinelli

Nel corso di questa breve ma intensa esperienza, Valeria mi ha stimolata a cercare e a costruire il ‘Mio Spazio Sacro’, un luogo non necessariamente fisico dove concedermi la libertà di esprimermi.
Questa ricerca, che continua ancora oggi, mi ha fatto scontrare con la mia innata razionalità creandomi non poche incertezze e paure.
Osservando le immagini realizzate in questo periodo però, credo di essermi davvero concessa il piacere di lasciarmi andare, di lasciar FLUIRE tutto e di diventare altro da me.

Summer School
‘Confini’, Simona Serra

Mentre osservo il mare penso ai miei confini, a tutte le volte che li ignoro e a tutte le volte in cui devo impormi di segnarli. Linee, colori, persone, forme, ombre e il timore di non potermi soffermare abbastanza, la paura che possano sfuggirmi e allora cerco di racchiuderli in una fotografia. Molto più del ricordo cerco di fermare la storia di quell’istante, una storia che probabilmente prenderà un’altra forma e un’altra vita quando la riguarderò o quando qualcun altro la vedrà attraverso i miei occhi.

 

L’avventura di una fotografo – progetto finale
‘Diario dell’acqua’, Simona Serra.

Questo come altri progetti che ho realizzato nasce con le idee chiare ma quasi subito si perde negli abissi. E non poteva che essere così essendo l’acqua l’elemento centrale. Sono partita dagli studi sull’antropocene per approfondire il tema della siccità e di come l’intervento dell’uomo modifica l’ambiente e il paesaggio. L’obiettivo era documentare alcune zone dei laghi del nord Sardegna. L’acqua è un elemento per me fondamentale che emerge spesso nei miei lavori e avevo pensato ingenuamente o forse anche con presunzione di poter decidere come e in che modo l’avrei documentata. In questo lavoro per un po’ invece la sentivo ostile perché non conforme a ciò che mi ero prefissata. Non trovavo tracce tangibili di siccità, né resti antichi sui fondali aridi dei laghi.  Ho continuato comunque a scattare e a raccogliere sul mio diario non solo appunti di viaggio ma anche le mie sensazioni rispetto a quello che mi suscitava il paesaggio. Quando rientravo a casa disegnavo con inchiostro nero ciò che mi rimaneva di quelle emozioni e immaginavo personaggi umani e non che potevano abitare quei luoghi. È nato così Il diario dell’acqua, un diario delle aspettative disattese, ma anche di ascolto e di contemplazione del paesaggio, della natura e di sé stessi e di come ci può modificare profondamente. Per farlo è necessario smettere di pensare che esso sia fermo e immobile e che noi possiamo esserlo di fronte ad esso. È necessario allontanarsi da quella incapacità di irrorare il pensiero di cui ci parla Matteo Meschiari, di quell’inaridirsi dell’immaginario che non ci permette di pensare a mondi possibili, a visioni alternative rispetto a quelle che ci vengono proposte. (Testo dell’autrice)

L’avventura di una fotografo – progetto finale
‘Finìl finit’, Saura Bianchi.

Bisogna andare lontano, nel tempo, per avere ricordi di alcuni luoghi, bisogna tornare ai ricordi dei nostri nonni o addirittura bisnonni, per immaginarli ancora vivi. Sono addormentati nei boschi, hanno fatto la storia di tanti ma ora testimoniano solo l’abbandono dei piccoli paesi montani e la riconquista della natura del proprio spazio. Questi sono solo alcuni dei fienili, nella zona di Vallesabbia in provincia di Brescia raggiungibili da stradine o sentieri che possiamo incontrare, che ci immergono in un’atmosfera fiabesca ma desolata. Non è stata un’alluvione, non un terremoto o altre catastrofi che ne hanno causato l’abbandono, semplicemente non servono più! (Testo dell’autrice)

L’avventura di una fotografo
‘La maison’, Lucia Russo.

A seguito della lezione dedicata all’Antropocene, a Lucia, è stato assegnato l’esercizio di presentare degli studi preparatori basati su uno degli argomenti studiati durante la lezione. Fotografi e parole chiave che esprimono le peculiarità dell’Antropocene, sono stati esaminati e scelti da Lucia, seguendo quelli che più l’hanno incuriosita.
Di seguito, gli appunti che ci ha mandato Lucia, in sede di realizzazione dell’esercizio.

Mi arrivano più emozioni, ma quella che che più mi ha fatto riflettere è quella della nostra impermanenza sul pianeta Terra.
Guardando le sue foto, ed in particolare quella della casa rosa isolata nel bosco, non ho potuto che sentire la presenza umana, nient’altro che una presenza uguale a quella degli altri esseri viventi. Pensiamo che quello che costruiamo sia eterno, ovvero che durerà per tutta la vita del pianeta. Invece, non è così. una casa è solo una casa, ovvero una copertura per l’essere umano.
come una tana per un lupo, per un furetto.
Mi sono sentita, guardando alcune delle foto che abbiamo analizzato, come un un extraterrestre che guarda dall’alto la Terra con le impronte dei viventi che l’hanno vissuta. Quelle mi fanno pensare principalmente che tutto cambia, nulla è eterno. Così noi esseri umani ‘ce la suoniamo e ce la cantiamo’.
L’idea che è meno di un lumino è seguire le tracce che l’uomo lascia venendo sulla Terra. Non vi è differenza tra il nido delle termiti e la casa di una persona. Siamo solo degli abitanti della Terra. La casa è solo la tana dell’uomo. Diamo così importanza alla casa. In Italia la casa/proprietà è più importante della felicità individuale. Si fanno sacrifici superiori alle proprie forze e tasche per acquistarne una. Seppur ci sopravviveranno, non è per sempre.
Mi sono fatta un’idea mia di cos’è per me la casa. Per me non è il luogo dove devo difendermi o ritirarmi dal mondo esterno, oppure dove prendermi cura degli altri o dove devo mettermi le creme idratanti. Per me la casa è il luogo dove posso creare, non tanto progettare ma creare. Se mi allineo alle definizioni degli altri, invero non vedo nessuna differenza tra una casa ed una tana. (Testo dell’autrice)

L’avventura di una fotografo
Esercizio sull’autobiografia. ‘27. Ora o mai più’, Elena Giacobbe

‘Lei, signorina, ha un’uveite piuttosto aggressiva. Speriamo che non sia troppo tardi’.
Le parole del dottore mi riecheggiano dentro ancora oggi. All’improvviso mi si è offuscata la vista dell’occhio destro. Avevo assimilato i sintomi dell’uveite a una comune congiuntivite, ritardando l’intervento del medico. Mai prima di allora avevo sentito parlare di uveite. La luce mi dava fastidio. La coscienza del dolore mi ha aiutata a guardare un’esperienza che mi ha segnata e aiutata a maturare una consapevolezza diversa del tempo e dello spazio che abito.
La mutazione passa per il numero 27. Nella numerologia infatti simboleggia il passaggio verso uno stato di consapevolezza maggiore. Proprio a 27 anni mi è stata diagnosticata per la prima volta l’uveite. Un’infiammazione di una sottile membrana dell’occhio, uvea, situata tra la cornea e la sclera. Spesso le cause dell’infiammazione non si conoscono. Se non curata tempestivamente può causare danni seri. La peculiarità è la ciclicità. Può tornare più volte nel corso degli anni.
Ogni volta lascia degli strascichi. In dono ho avuto l ‘opacizzazione del cristallino, una più acuta sensibilità alla luce, e la persistenza di macchioline nere. Residui del pigmento dell’iride rimasti sul cristallino in fase di infiammazione acuta.
Ma è proprio grazie alla consapevolezza del dolore che ho acquisito prospettive diverse.
La vita è solo una. (Testo dell’autrice)

idf/tutoring on line
‘Dream’s room’, Stefania De Chirico.

RIFUGIO.
Mi rintano nei miei sogni per proteggermi dalla realtà.
Colleziono pezzi di pensieri, fugaci, estemporanei.
Li afferro e li imprigiono su carta. Li manipolo. Lascio che il mio inconscio parli, per una volta, libero da censure e costrizioni.
Osservo da lontano il puzzle. È tutto esattamente come è nella mia testa.
Chiudo gli occhi e finalmente posso sorridere con me. (Testo dell’autrice)

 

La famiglia, corso on line con Fabio Moscatelli
‘Le Lettere di Titti e Franco’, Matteo Angelini

Era un pomeriggio di maggio del 1933. Aveva piovuto e moltitudini di rondini sfrecciavano nel cielo quando ti vidi per la prima volta dalla mia finestra. Iniziammo così notte intere al telefono, con domande e risposte sempre pervase della tua saggezza. Riuscimmo ad incontrarci solo due volte con grande difficoltà e dopo appena quindici giorni tornasti a Napoli. Era la nostra prima lontananza e mai avremmo immaginato le tante distanze future e le tante lettere che mi avresti dovuto scrivere. L’Africa e l’Abissinia significarono per noi un periodo della nostra vita vissuto come una parentesi.  Poi nel 1949 un cambiamento totale di vita per tutti noi. Più volte la settimana venivo a Roma in macchina percorrendo la Salaria e Titti mi accompagnava sempre anche in gravidanza. Avevamo creato un esercito, sette figli, un cantico dei cantici dei nostri geni prorompenti di vita. (Testo dell’autore)

Recherche, Federica Venturi

Questo progetto nasce con l’annuncio dell’ imminente vendita della casa di campagna dei miei genitori, la casa dove hanno sempre vissuto e dove io sono cresciuta. Da qui la necessità di percorrere un viaggio nella memoria, attraverso vecchi ricordi e vecchie foto ripercorro la loro storia, viaggio nella natura e nel loro amore, ricercando le mie radici. (Testo dell’autrice)

idf/lab, laboratorio on line
‘Racconti calabri sull’uscio’, Rosellina Formoso.

Paesi, silenziosi, vuoti, se non fosse che per quegli incontri davanti le porte delle case. Si potrebbero trarre dei profili antropologici e sociali dagli scambi di battute, si potrebbe capire in quale zona ci si stia muovendo (a parte la dischiarazione del titolo). Se hai subito un lutto non va bene farsi fare le foto (mi vengono in mente le questioni quasi ontologiche del fare foto e quando e quando è bene non farle); se ti fai fotografare, poi, i figli chissà che cosa pensano (mi vengono in mente le nostre fissazioni, a volte lo sono, i pregiudizi). Noi dibattiamo su cosa sia sconcio e cosa non lo sia, di minigonne e quant’altro ma in alcune zone la questione nemmeno si pone, in alcune zone già farsi fotografare somiglia ad un attacco alla morale: della famiglia, della dignità di madre. Il sugo lasciato pippitare e l’apertura al dialogo con la sconosciuta armata di obiettivo sono altri indizi (sempre a parte il titolo che la dichiara) della zona in cui Rosellina ha agito. Basta poco per trovare storie e conclusioni, basta, a volte, parlare con le persone per capire il sentimento di un luogo, la cultura sociale dello stesso. A volte, la vivacità dei colori contrasta la severità dei canoni sociali, altre volte ci va a braccetto, penso al calore delle persone del sud, anche in alcuni paesi di montagna. Rosellina rivolge spesso l’obiettivo ai borghi adagiati sulle montagne anziché sul mare – ripeterò sempre che è una parte del sud a cui si pensa poco, eppure, molte delle catene montuose sono ai margini del sud del mondo: l’Himalaya è nel sud figurato, quello che noi bravi occidentali chiamiamo ‘sud del mondo’; le Ande, sono a sud, quello geografico – impervie e tettoniche, come l’Appennino ma di più, più terribili e pericolose. Noi nell’Appennino ci abbiamo nascosto molte cose che non volevamo vedere – come società – eppure il territorio aspro accoglie i visitatori che si aggirano con macchina fotografica e taccuino, facendosi semplicemente conoscere, vedere, a volte si incappa in accoglienze e sorrisi, altre volte nell canone sociale (riti, usanze, morali). Non è mai avaro di darsi a vedere, di sare sé stesso, il sud. Un dialogo vale una vita, un dialogo vale un’idea su un luogo. Come un’esploratrice Rosellina, non si stanca di esplorare casa sua, i suoi dintorni, risaltando le forme del suo sud attraverso le persone, che poi sono loro, sempre, le protagoniste. Anche se le strade sono vuote, di chi parlano quei pesi, altrimenti?

 

idf/tutoring on line
‘Nella tua luce’, Stefania De Chirico

Nell’anno in cui il mondo andava in crisi per il Covid, il mio di mondo ha deciso di andare in mille pezzi. E non sapevo proprio come tenerli assieme. Nell’autoritratto ho trovato il modo per ritrovarmi, scrollandomi di dosso le maschere per arrivare alla mia reale essenza. Mi sono accorta poi che c’era stato un solo sguardo capace di starmi accanto in questo percorso, l’unico incapace di giudicarmi perché scevro da condizionamenti: quello di mia figlia Asia, di 5 anni. Mi è sembrato quasi naturale chiederle quindi di lavorare insieme a me sulle immagini che segnano il ritorno a me stessa, una storia dove lei è stata attrice invisibile e guida costante. Testo dall’autrice. Il progetto è stato pubblicato su idf/fanzine #1.

Scrivere con le immagini. Corso di fotografia e scrittura one to one.
‘Un cielo senza nuvole’, Elena Giacobbe.

Ho preso l’abitudine, mai bastevole, di appuntarmi i racconti sull’infanzia dei miei genitori. Tenere memoria di chi ci ha messo al mondo è ancorarci indietro nel tempo, cercare di capire chi sono i nostri genitori e le energie da cui proveniamo. A prescindere, poi, se ci piacciano oppure no. Elena ha trascritto le conversazioni al telefono tra suo padre e un suo amico di infanzia, che la vita ha tenuto lontani. Ha fotografato pezzi di suo padre, dettagli, sgranando, quasi andando oltre le forme apparenti, e le ha unite con degli schizzi, come se al telefono ci fosse lei, che disegna trastullandosi. Un’operazione creativa e di archivio, di trascrizione e restituzione a suo modo. Perché i figli vengono dai genitori ma sono altro da loro, come anche le interpretazioni sulla provenienza che ne traggono.

Lu jemete’, Alessio Rettaroli.

Un viaggio evocativo tra le memorie dell’antico passato al confine tra Umbria e Marche. Memorie, che hanno definito il presente, e riflessioni sul concetto di ‘confine’, di ‘limes’ e ‘limen’. Quali differenze e quali analogie tra i due? Il libro si compone di due volumi: una ricerca contemporanea scandita da un antico poemetto e un quaderno di stampo storico, con ricostruzioni di fatti e ricerce iconografiche. Lu jemete è una delicata ricognizione storica e poetica di un territorio attraversato da un confine. Il lavoro si compone di pezzi di poemetti del 1500, testi scritti da Alessio, foto di repertorio, disegni e fotografie che raccontano questo confine, come si presenta adesso. Alessio racconta battaglie successe secoli fa, cercando anche segni capaci di rimandarci a quelle storie raccontate dai menestrelli e dai pastori del luogo.
Se la fotografia racconta sempre un punto di vista, le fotografie di Alessio ‘approfittano’ dell’estrema bellezza del luogo, facendosi ponti immaginifici, togliendo i tratti riconoscibili del territorio, e scovandone altri, sempre caratterizzanti ma che vanno oltre l’immaginario collettivo riguardo questo luogo.
Come raccontare un territorio molto conosciuto?
Semplicemente facendolo conoscere per la prima volta.
Il progetto è diventato un libro (vedi sezione idf/books).

Scrivere con le immagini, workshop on line in collaborazione con Ankonistan – Moodboard collettivo

Stefania De Chirico, bozzetti per il progetto finale.

Le foto di Stefania De Chirico nascono da due suggestioni.
La prima, dichiarata e relativa a queste foto in medio formato che non riuscivano a prendere una collocazione definitiva.
Ho suggerito di contrapporre alla chirurgia di queste immagini, delle foto a colori, realizzate col cellulare, magari delle foto con soggetti diversi: particolari di periferia, scarti a terra, e oggetti curiosi, o semplicemente vedute colorate e desolate del quartiere. La seconda suggestione è arrivata alla fine, quando Stefania mi ha rivelato che l’idea di fondo erano ‘le città invisibili’ di Italo Calvino e che voleva lavorare sul testo anche visivamente. Le composizioni, presentavano anche la porzione di testo sulla quale ha lavorato Stefania ma abbiamo convenuto di toglierla, di lasciare leggibile il testo direttamente all’interno della scansione dello stesso. Un enigma, senza ridondanze, quindi, di immagini che si parlano e parole, cancellate, alcune, lasciate, altre. Un modo per sollevarsi dal testo, attraverso tre linguaggi e formati: il medio formato in bianco e nero, la phone photography in 16:9 a colori, e la verticalità del libro, ridotto, nella quantità, a piccoli haiku, sebbene sia una formula lontana, dall’occidente e forse anche per questo estremamente affascinante.
La bozza di questo progetto si compone di aggiunte (le foto a colori) ma anche di sottrazioni: di geolocalizzazione e testuali.
Perché conditio sine qua non è sempre ‘less is more’, o per dirla alla Calvino ‘leggerezza’.

Il progetto finito.

‘Ikonemi anonimi’, si compone di foto di architettura e paesaggio, di medio formato in bianco e nero; foto da cellulare a colori e da porzioni di testi ripresi da ‘le città invisibili’ di Italo Calvino. Con un’operazione visiva di sottrazione, che prende spunto da metodologie dell’arte contemporanea e da metodi di scrittura, Stefania, ha realizzato delle tavole, ognuna composta testi, e foto, ognuna più grande della somma delle piccole parti.
Stefania parla di Ancona ma togliendo ogni segno di riconoscibilità si apre a nuovi territori e a nuove mappe, geografiche e immaginifiche.

Benedetta Pasquinelli, bozzetto per il progetto finale.

Le foto di Benedetta hanno un che di elegiaco e trasognato.
Abbiamo lavorato su un corpus di immagini preesistenti ma non ancora terminato. Come sono nate queste foto, qual è il loro scopo? Successivamente abbiamo cercato di potenziare l’idea iniziale di Benedetta che aveva racchiuso per immagini, il tragitto fino a casa dei suoi, percorso una volta finito il lockdown. Benedetta, durante il workshop, è tornata su quella strada ma è anche andata ‘a caccia’ di immagini pertinenti, anche se di un altro luogo, compiendo un accostamento visivo ed emotivo alle foto già fatte. Un esercizio che si applica bene decontestualizzando i soggetti, togliendo riferimenti geografici definiti, tuttavia, come in poesia, scegliendo esattamente i frame da fermare attraverso il dispositivo di scatto. Non scelgono i poeti, attentamente, le parole da scrivere e pronunciare? Ebbene, la sua ricerca ha cercato di sondare anche attraverso la letteratura questo moto a luogo e ne è uscita una piccola selezione di citazioni poetiche e letterarie. Ma citare non basta, e perseverare su questa strada voleva dire compiere un mero esercizio di stile. Del resto, un autore, si solleva dalle citazioni, le dosa, e spesso queste, sono solo un punto di partenza per il suo discorso. Ebbene, ho suggerito a Benedetta di eliminare il più possibile il discorso testuale, lasciando solo delle parole: come ogni fotografia è un distillato poetico, la stessa cosa vale per il linguaggio verbale che vi compare. La sintassi, è data dal discorso visivo che si crea attraverso i dittici, non dalla scrittura letterale. Il corpus che ne esce è un insieme di impressioni dove la lievità sorpassa di gran lunga le forme troncate degli alberi e la gravità del cemento.

Marco Blasi, bozzetto per il progetto finale

Le foto di Marco Blasi nascono da una ricerca storiografica riguardo al borgo dove vive. Scopriamo che il suo nome ha a che fare con la polvere e le strade sterrate del territorio nel quale si è creato il nucleo abitativo – polvere e sterpaglie.
Seguendo queste parole Marco è andato a cercare le tracce di polvere e sterpaglie rimaste ed ha scelto di contrapporle alle raffigurazioni odierne del territorio, seguendo linee e assonanze visive, creando immagini che si sollevano dalla realtà, seppure entrambi le parti la rappresentano, ognuna a suo modo.
Nuove topografie che iniziano dal territorio ma che se ne discostano fortemente, fattore, questo, accentuato dai tagli netti delle due immagini, proprio nel punto esatto in cui combaciano. Un modo di scrivere attraverso le immagini che non sono solo fotografiche, attraverso prerogative che in primis appartengono alla scrittura. Cercare le rime, visive, tra tipologie di immagini apparentemente lontane, ma che entrambi parlano del medesimo soggetto. Quante volte e come posso raccontare un luogo e quante volte questo luogo può, anche diventare altro? E in quanti modi e come posso innestare la fotografia ad altri linguaggi? Esiste un linguaggio che non sia ibrido e repellente al cut-up?

Menschlich. La memoria dell’adesso.

Laboratorio on line di arte partecipata + mostra al Museo Città di Cannara + Ebook.
 
Volti che si moltiplicano,
volti di profilo quando non mascherati e/o sdoppiati,
volti caleidoscopici indecifrabili,
luci e ombre,
frasi di canzoni che si ripetono,
poesie,
descrizioni di sé stessi,
piccole frasi, versi.

E’ in questo modo che sette sconosciuti hanno prodotto una narrazione su sé stessi partendo dallo stesso materiale didattico. Sette persone che hanno partecipato ad un laboratorio di arte partecipata ma da remoto. Un ossimoro, sicuramente, ma forte lo stesso da detonare lo ‘slancio vitale’ di chi vi ha preso parte. I sette sono stati invitati a rappresentarsi, descriversi, parlare di sé, nella maniera a loro più congeniale, senza per forza dire tutto o attenersi a dati certi e anagrafici. Dove vola l’io se è lasciato libero di esprimersi? Certamente si solleva da terra – discostandosi dalla mera corrispondenza al reale – privilegiando metafore; indicativo che i sette sembrino rivelare le loro essenze piuttosto che le loro presenze. Quindi, forse, è stato fatto un doppio gradino: il sollevamento dall’immanenza e l’esercizio di guardarsi da fuori, un moto a luogo dentro-fuori. Le metafore, del resto, sono da sempre lo strumento-tramite della lingua e delle storie, il tramite per dire cose altrimenti non dette o forse nemmeno conosciute, se non si adoperasse il filtro metaforico. Valgono anche in fotografia. 

Non mi stancherò mai di dirlo, ma ogni volta che lavoro con le persone, attraverso progetti partecipati, dove c’è anche la scrittura di mezzo, c’è un momento in cui sono gelosa di quanto mi viene restituito e sono gelosa perché, pur avendo appurato di aver dato il mio meglio professionale, quello che ne ricevo è sempre un di più, che non si spiega con la professione, le capacità tecniche, con l’amatorialità o la semplicità di un ipotetico ‘primo lavoro’, o la bella figura che mi fanno fare queste persone, piuttosto con l’umanità (e non è una battuta che fa il verso al titolo anche se diviene coincidenza curiosa, ma del resto lavorare con l’arte regala queste forme magiche e mitologiche di connessioni). L’umanità di qualcuno che ha scelto di lavorare con me, l’umanità di qualcuno che ha prodotto qualcosa per l’occasione, ok, ma c’è un limes che è magico, perché emotivo ed empatico. Chi si aspetta di leggere un lavoro fotografico in senso integralista del termine può chiudere questo ebook (anche se ormai le foto già le ha sfogliate e, aimè, si è dovuto sorbire anche dei lavori che sono più dei ‘photo-text’ anziché delle semplici fotografie). Ecco, l’umanità delle persone è quello che mi colpisce, quello che, osservandolo, mi fa trovare i topoi emersi sopra, tra lavori di persone eterogenee: pochi sono umbri (tanto per cambiare), i più vengono da altre regioni, non tutti sono fotografi professionisti o artisti, alcuni sono miei studenti o persone che con la fotografia cercano di approfondire la vita e sé stessi, perché la fotografia è uno strumento conoscitivo e non tanto e non solo uno strumento dimostrativo. La fotografia, come l’arte, serve a rendere la vita più bella da vivere, a condividere, a conoscere, a oltrepassare i propri limiti, anche cognitivi, come i limiti di una certa ortodossia fotografica o limiti anche personali legati, magari, al proprio status di vita, impongono. Non ho avuto, pertanto, pretese dal curriculum di queste persone ma ho chiesto loro di mettersi in gioco quanto potessero e lo hanno fatto, perché mentre li seguivo ho visto come alcuni non si sono accontentati delle risposte facili, alcuni, addirittura avevano rigetto per l’autoritratto, ma estendendo il concetto di autoritratto a ‘rappresentazione anche metaforica di sé stessi’, lo hanno accolto superando il proprio limite, con risultati sorprendenti, viste le premesse, altri si sono fatti aiutare nella scelta delle foto, in un atto di totale fiducia, fiducia, in tempo di distanziamento sociale, fiducia.

Questa è l’umanità, che dopo un anno di lockdown mi piace dare a vedere, anche in un museo, e anche prescindendo dai curriculum, sì, perché con la scusa del professionismo, spesso, ci allontaniamo dalle persone e i musei rimangono vetrine di bravura iperuranica che anziché accorciare la distanza tra l’arte e le persone la amplificano, divenendo polverosi, quando non sterili. Riportare le persone in un museo di provincia attraverso loro stesse, attraverso i loro simili, attraverso narrazioni sulle persone stesse e non sugli artisti, le opere o i reperti di turno. Azioni che si fanno, al di fuori delle tessere dei club, o al di fuori dei club degli amici degli amici, abbracciando, con professionalità, quanta più umanità e creatività possibile, azioni che si fanno, anche se sono in pochi a vederle ‘a casa loro’ ma che, in questo caso, hanno travalicato i confini geografici, esattamente come gli intenti del progetto chiedevano, non solo e non tanto a causa della sua pubblicazione on line. E iniziare a trattare chi si rivolge a noi fotografi-docenti, non come un futuro collega da indottrinare stile ‘saranno famosi’, ma come persone alle quali trasmettere input che possano aiutarli a seconda di quanto loro stessi gli lascino fare è la cosa più bella che possiamo chiedere al nostro lavoro di docenti. Che facciamo, teniamo l’arte solo per chi vuole fare l’artista di professione?
A tenere le cose per sé, si perde, a condividerle si vince, tutti. L’arte serve a rendere la vita più bella da vivere.

Literature & photography. Corso di letteratura e fotografia on line.

‘Porosità’ di Daniela Storti

‘Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo così e non altrimenti.(W. Benjamin, Napoli porosa)

Di quanti strati è fatta una fotografia?
Ok, la fotografia è tendenzialmente un’immagine bidimensionale quindi non è percepita come stratificata, almeno ad un occhio ingenuo o ad una risposta immediata. Oppure possiamo passare in rassegna i sette step di analisi dell’immagine, che vanno dalle linee al metatesto e già potremmo dire di avvicinaci, o di aprirci alle possibilità. Che è quello che un corso come ‘Literature & photography’ vuole offrire. Ebbene, procediamo oltre: il soggetto di una fotografia, quanti strati può avere? E soprattutto, quanti sensi può evocare? Può una fotografia evocare la porosità, magari grazie ai suoi strati? Possono contribuire, le ombre, le pietre, i materiali e la luce dura a rendere percepibile il senso – vasto – di porosità, così come quello indicato da Benjamin ha ispirato Daniela? Tutte queste caratteristiche elencate sopra, contribuiscono, come dei flash onirici, alla versione che Daniela ha dato di Napoli. Non solo di strati è fatto il progetto di produzione, non è bastato, non questa volta, scattare le foto.
Si è partiti da un pensiero, si è cercato di capire come renderlo fotografie e si è stabilito un procedimento di produzione: scatto, stampa, scrittura, scansione. La scrittura cammina di fianco alle foto. Scrivere testi densi avrebbe causato ridondanze, poco evocative. Il grande insegnamento ‘less is more’, anche questa volta ci è venuto in aiuto. Ha ‘costretto’ Daniela a pesare le parole, scegliendo solo quelle che accompagnassero il suo pensiero, che potessero mettersi di fianco alle foto. Quanti strati può avere una foto, quanti strati può avere il soggetto di una foto (e una città) e quanti strati può avere il processo creativo più adatto allo scopo e al soggetto che ci siamo dati. Numero incalcolabile in modo definitivo ed oggettivo, universale ed univoco, perché lavorare tra letteratura e fotografia non può avere una strada sola come partire da un’opera letteraria non può significare fotografarne le didascalie. Ogni opera deve essere apertura e stimolo verso un altrove, meglio se sconosciuto. Il progetto è stato pubblicato su idf/fanzine #1.

‘Di profilo’ di Simona Serra.

Se nel progetto finale di ‘Scrivere con le immagini. Corso di fotografia e scrittura’, Simona si cimentava con l’immedesimarsi nelle vite degli altri, ricreando con la docu-fiction le scene dei racconti ricevuti a causa del lockdown che le impediva il lavoro sul campo, in ‘Di profilo’ Simona non si pone minimamente il problema di andare a fotografare qualcuno o qualcosa. Si perché questa volta si immedesima, immagina, direttamente vite e ambienti, se non menti, irraggiungibili, ovvero quelle di alcune importanti scrittici del ‘900. Attraverso le letture dei diari, le foto di archivio, il brainstorming e la messa in scena, Simona si immerge, questa volta, nella letteratura, e nella mente, appurata e poi anche presunta, di alcune donne che ancora troppo poco ci vengono tramandate. Una riflessione universale sull’apporto che la letteratura dà alla vita delle persone, anche nel suo aspetto più intimo, nell’aspetto bio e autobiografico delle scrittrici rappresentate e di chi le legge. Perché se già leggere le opere di qualcuno può darci l’impressione di conoscerlo, immergersi nel suo universo personale, attraverso anche l’immaginazione, non può che essere il climax dello scambio che ogni scrittrice e scrittore che si rispetti continua ad intessere con i propri lettori. E quando lo fa a distanza spazio-tempo considerevole questi vengono trascesi direttamente, come con tutte le grandi opere, come con tutti i grandi artisti che sanno parlare, non solo e non tanto, al proprio tempo ma anche oltre di esso. Ed è bello che ciò si manifesti anche attraverso la fotografia perché, del resto, uno dei punti in comune tra letteratura e fotografia è proprio che si toccano grazie anche all’immaginazione e agli immaginari che creano e, in questo caso, si scambiano. Il progetto è stato pubblicato su idf/fanzine #1.

Corso di fotografia da ICAM – Isitituto culturale di arti e mestieri di Foligno. Progetti finali

‘Ricordi al presente’ – il progetto di Marina Foddis.

E’ possibile rivivere quello che avviene nelle nostre foto? E’ possibile tornare fisicamente e non attraverso il gioco di memoria, percezione e anamnesi a quello specifico momento? Domanda retorica. Tuttavia, se alla fotografia abbiamo da sempre affidato il compito di fermare ciò che è sfuggevole (il tempo) o di manifestare un’assenza (attraverso il ricordo evocato), allora possiamo anche darle il compito, immaginifico quanto ironico e anche posticcio, di farci vedere ‘come se’ potessero coesistere l’io bambino e adulto, insieme, nello stesso momento. Che cosa si vedrebbe, come mi percepirei davanti una scena del genere, dove ci sono io che guardo, io adulta e io bambina? Mentalizzazioni, queste, possibili solo attraverso dei simulacri, attraverso la flessibilità e la trasparenza del mezzo fotografico, che, come fantasmi, ci fa attraversare epoche e memorie, immaginare storie, come se, anziché fermare la morte, rendesse noi, degli spiriti che oltrepassiamo il tempo. Montare queste immagini attraverso il collage cartaceo le rende fortemente ironiche, molto low fii. Ce lo fa percepire forse anche goffo, questo tentativo, che tuttavia, rimane permeato di domande circa ‘la freccia del tempo’ e lo spazio che noi ne occupiamo. Dov’è la freccia del tempo in queste foto, e qual è lo spazio, oltre quello bidimensionale? Dove finisce il frame e inizia la mia mente?

‘Just a coffee’ – progetto di Simone Flamini.

Chi avrebbe mai pensato che i gesti più semplici, ai quali siamo culturalmente e socialmente legati, potessero essere spunto di riflessione, e che potessero esserlo perché all’improvviso la nostra realtà è cambiata? Scegliendo il meccanismo dello storyboard, Simone, con ironia e un pizzico di pathos, pone l’accento sul rito del caffè al bar. O meglio, pone attenzione su quello che attualmente viviamo, quelle volte che andiamo al bar, anziché rinunciare perché quel rito, adesso come adesso, con le regole sanitarie sembra cambiare il sapore al caffè, sembra altro e alieno. Simone racchiude alcune scene tipiche del nostro tempo pandemico, fatto di riti, e di misunderstanding forzati dai visi nascosti e permanenze nei bar fugaci, che impediscono il saluto dopo il riconoscimento. Quanti avranno pensato, uscendo dal bar, ‘volevo solo un caffè’, ‘nemmeno più il caffè in pace si può prendere’. Simone, attraverso l’ironia con cui decide di posare davanti l’obiettivo, si fa portavoce di questo rito-disagio quotidiano. Scene semplici e pulite che denotano lo scorrere del rituale, scandiscono il tempo e stanno nel tempo, in questo tempo che ci è toccato di vivere dove ogni cosa, perché nuova, ha una nuova luce, e i riti, quelli ormai atavici, hanno, all’improvviso un nuovo sapore, come è nuovo il sapore che attribuiamo alle piccole cose che facciamo in passato. Perché se da un lato il caffè era più buono prima, dall’altro, è grazie a questa vita dolce e amara che ce ne rendiamo conto. Bravo Simone e grazie per la delicatezza posata su un gesto così importante da non essere più scontato.

Scrivere con le immagini, corso di fotografia e scrittura on line. I progetti finali

Katiuscia Vammacigna

Lavorare di con sull’ironia non è facile. Il rischio di incappare in banalità è alto, di ribadire l’ovvio altrettanto. E poi che vuol dire lavorare di con sull’ironia? Sfocio nell’umorismo, nel cinismo, uso le citazioni di cinema e/o letteratura, metto in scena set simpatici o tragicomici…cosa voglio dire? Ho suggerito a Katiuscia Vamma di approfittare del caos scegliendo direttamente di lavorare sull’auto-ironia. Dicono sia fondamentale per accattarci così come siamo, sia fondamentale per risollevarsi dopo le cadute, sia fondamentale per interagire con gli altri. Se l’ironia salva, l’auto-ironia risparmia dosi e dosi di analisti. Forse, perché se per cogliere l’ironia bisogna essere consapevoli della stessa per afferrarla e capirla, per fare autoironia serve, credo, una buona dose di consapevolezza. E se si è consapevoli di se stessi allora per osmosi, si dovrebbe essere consapevoli della realtà e dunque riuscire a cogliere l’ironia etc, etc, come detto sopra. Ne è nato un diario dell’ironia, dove, consapevolmente tra il poco tempo giornaliero, quasi spudoratamente alla rinfusa, Katiuscia ha adoperato una selezione di senso e di forma, creando quindi una grammatica per i suoi sketches, usando foto trovate in rete o foto che aveva in archivio.
La conferma che un diario creativo è il giusto espediente per dar forma alla creatività, per sbizzarrirci, dandoci le regole che vogliamo; utile, anche questo, ad essere consapevoli, quindi auto-ironici e quindi a risparmiarci soldi di analisi e mindfullness vari. Viva il diario, dunque.

Saura Bianchi

Il progetto è stato pubblicato su idf/fanzine #1.

Parliamoci chiaro, chi non soffre di mal di testa, o chi non l’ha mai provato, non ha idea di cosa significa portarlo addosso. Si descrive, si spiega, quando possibile, agli altri, molte volte si tace, come se fosse inutile spiegare e dire quanto si sta male. Ho sempre ammirato come chi ne soffra spesso se lo porta addosso, per giorni, mentre si occupa dei figli, del lavoro… Scrivo ‘porta addosso’ perché il mal di testa è come un qualcosa che il tuo corpo indossa: i 5 sensi si acutizzano, tutto diventa un più, nessuna parte del corpo ne è esclusa.
Il primo problem solving da adoperare con Saura è stato cosa dare a vedere di questa cosa che molti scambiano per una stranezza, molti non lo sanno che ne soffri, perché tanto fai prima a stare zitto. E’ un po’ come i dolori mestruali delle donne, si ma che vuoi che sia. Mi viene da dire un guarda caso ne soffrono di più le donne degli uomini, quindi tutto passabile, è tutto un che sarà mai. Ebbene, da che s-punto visivo partire, da quale esperienza partire? La sua personale, quella di altri, tentiamo di disegnare gli effetti dell’aura, lavoriamo con la found photography….cosa facciamo? Facciamo che Saura trova nel bianco e nero e nelle sovra esposizioni la chiave migliore per entrare nel suo mal di testa e renderlo racconto agli altri, succede che raccoglie altre testimonianze di colleghe di ‘che vuoi che sia’, ogni testimonianza è unica come il punctum che Saura sente di dover dare al suo lavoro, e glielo suggerisce una lettura che non riguarda per nulla il mal di testa: ‘ognuno ha la sua zona d’ombra’ – ‘e se il mal di testa fosse la mia zona d’ombra, personalissima, dove masticare, digerire, assorbire ed espellere, attraverso il corpo, esperienze, la mia esperienza, la mia vita? ‘Due di me, come gli abitanti del corpo di chi ha il ‘che vuoi che sia’, una persona che è figlia, madre, amica, professionista, poetessa, artista, e quello che vi pare, e un’altra che spunta fuori, all’improvviso-socialmente come una gemella cattiva-ma per chi cattiva? Se noi siamo i ruoli che gli altri ci danno e che noi, a nostra volta ricopriamo, forse, chi ha il ‘che vuoi che sia’ è una coscienza, anzitutto (lo siamo tutti, ma ci fissiamo coi ruoli sociali, noi siamo esseri che sono, in primis), e a volte è un po’ raddoppiata, e ogni cosa diventa un di più. Le soglie corporee, di chi ha il ‘che vuoi che sia’, forse, sono molto più sottili ed è per questo che si sembra sempre un po’ suonati. E mi sento di dire che bisogna ammirare e rispettare queste persone dai sensi così preziosi per resistere in un mondo totalmente indifferente al loro di più.

‘Narami’ Simona Serra

Le due cose che colpiscono del progetto di Simona sono che anzitutto ha fatto una piccola ricerca linguistica per poter racchiudere attraverso la sua lingua madre (una delle cose più ancestrali che segna inevitabilmente la nostra identità) il senso del suo progetto. La seconda è che, gioco forza, vista la situazione emergenziale in cui ci troviamo tutti costretti, ha dovuto immedesimarsi nelle vite degli altri, non potendo andare a fotografarle, a fotografar quei luoghi, quegli oggetti, ricostruendo, dagli indizi delle foto d’epoca e dei racconti raccolti, qualcosa di possibile relativo a quanto narratole.
Questo è il salto a cavallo tra la docu-fiction che ha compiuto Simona riguardo il suo territorio e il passato delle persone che lo abitano chiamando a raccolta gli altri, attraverso la scrittura e la donazione di una foto del loro passato. Sembra poco ma entrambi le parti sono pezzi di memoria e di cuore, molto personali. Simona li ha raccolti e li ha portati oltre la catalogazione, oltre la documentazione, attraverso la fiction: cose personali come archetipi dove ognuno può trovare qualcosa della sua storia, o, semplicemente, immaginare, immedesimandosi oppure no. In questo periodo la sine qua non per realizzare dei progetti fotografici, con questi lockdown a singhiozzo ma che di fatto ci impediscono di interagire con le persone, è trovare un quid, un escamotage, un espediente creativo e creatore, verso narrazioni che inevitabilmente, partono dal quotidiano ma restano spesso laterali alle questioni fotografiche ed aprono a riflessioni molto più ampie, in questo caso di stampo sociologico e narratologico riguardo vicende e luoghi domestici. L’auspicio è che fatto di necessità virtù una volta, non solo Simona e chiunque intraprenda un percorso fotografico, ma proprio tutto il mondo della fotografia, integri ed interagisca con un meticciato di linguaggi e visioni. Perché bisognerebbe fare proprio come Simona: sapere da dove veniamo ma ‘oltrepassarlo in volo, in volo più in là.’

Professione fotografo. La fotografia nell’antropocene.
PCTO al Liceo Properzio di Assisi

Con la classe del PCTO ‘fotografia e antropologia’, ho cercato di mostrare e sperimentare il lavoro autoriale di fotografo, lavoro che porta, inevitabilmente a conoscere ed elaborare la storia e l’attualità. Ho dato ai ragazzi alcune parole chiave intorno alle quali sarebbe ruotato tutto il percorso: ‘antropologia’, ‘antropocene’, ‘immaginazione’, ‘immaginario’, ‘docu-fiction’, ‘fiction is action’.

Abbiamo guardato numerosi esempi del lavoro di fotografo: il documentarista, il creatore di fiction, il fotografo di moda, il creatore di docu-fiction, abbiamo visto la tecnica del collage e la found photography. Senza tralasciare gli aspetti filosofici e semiotici concernenti lo storytelling e l’analisi dell’immagine, con particolare riferimento al giornalismo e ai meccanismi dei media odierni, ho cercato di portare i ragazzi su un piano narrativo che partendo dalla realtà si sollevasse da essa. Tuttavia, per poter fare questo li ho fatti partire da quando di più prossimo hanno a disposizione: loro stessi. I primi laboratori condotti, infatti, hanno spiegato come la fotografia, anche per gli autori, è un modo per conoscere se stessi: senza consapevolezza, è difficile essere dei grandi narratori. Quindi i ragazzi hanno creato una sorta di diario fotografico dove particolare attenzione in questa fase è stata data al concetto di biografia / autobiografia, ritratto / autoritratto e selfie.

Dopo queste premesse siamo andati ancora più in profondità, ripercorrendo per sommi capi, attraverso alcuni generi fortunati, la storia della fotografia, leggendo questa come una grande narrazione dell’Uomo sull’Uomo. Perché, che cos’è la fotografia se non, anzitutto, un grande strumento antropologico? Non solo perché ha sostituito i disegnatori durante le spedizioni scientifiche e coloniali, non solo perché è il media che più ha influenzato la società moderna all’apice dell’antropocene, ma perché qualsiasi cosa che la fotografia dà a vedere è sempre un discorso sul genere umano: a volte aiuta a scoprire situazioni sociali difficili, altre volte, grazie alle avanguardie del XX secolo guarda dentro l’animo umano, altre volte, la fotografia immagina. Immagina possibilità, si mischia, anche, con altre forme artistiche e partendo dalla realtà propone nuovi scenari, nuovi spunti di riflessione.

Ecco, in un tempo incerto come questo, i ragazzi sono stati invitati a lavorare molto con le fotografie trovate in rete, anche se, laddove le normative lo hanno permesso, sono stati invitati a uscire e fotografare il loro territorio. Tuttavia, la crisi negli spostamenti ha fatto si che ponessimo attenzione anche alla photo trouvè, cercando di fare di necessità virtù e dunque a lavorare con le narrazioni dei giornali, e, come i surrealisti, di mischiarle tra loro, trovando il buono attraverso narrazioni terze, che gli sono servite a rafforzare ciò che per loro è importante.

Ho altresì invitato i ragazzi a scrivere le loro testimonianze in merito alla realizzazione dei vari laboratori e l’ultimo assegnato che gli ho dato è partito da una domanda: come immaginate il vostro mondo futuro? Come immaginate il futuro, adesso, in un momento paradigmatico come questo?   Non si sono fatti prendere la mano dalle narrazioni predominanti, hanno lavorato su ciò che hanno ritenuto importante, tra le notizie del 2020. Il virus scompare, nei progetti finali. C’è tanta tolleranza, uguaglianza, c’è l’accettazione, quasi zen, dei contrasti della vita, la voglia di abbracciarli tutti; c’è la consapevolezza che la magia non è qualcosa che esce da una bacchetta magica ma è qualcosa che ha a che fare molto con l’empatia e il sentire; c’è la riflessione sul tempo, tempo che diventa una scusa per non essere presenti a noi stessi: ‘La prima cosa che vorrei sono i tramonti per un tempo più lungo. Tutti siamo immersi dai nostri pensieri, dal lavoro e spesso restiamo dentro casa perché abbiamo troppo da fare, tanto che sono poche le volte in cui ci soffermiamo a guardare il tramonto oppure non abbiamo il tempo giusto per riuscire a vederlo. Allora in questo mondo i tramonti deve essere più lungo, in modo che le persone possano osservarlo per più tempo e capire che la natura è un dono per tutte le cose che ci dà.’

Questi ragazzi, attraverso i loro diorami in due dimensioni, hanno dimostrato di saper usare le immagini, non solo fotografiche, piegandole, alla loro volontà, come i migliori narratori, verso l’immaginazione sul loro mondo. Mondo immaginato, si, ma anche molto concreto, la riprova, questa, che immaginare non è una questione da poco.

Letizia Ortolani

Sofia Cerrini

Francesca Filote

Anna Centemeri

Martina Angeli

Per un’antropologia della fotografia. Conoscere sé stessi e il mondo attraverso le immagini. Laboratorio di fotografia alla Scuola Media Valerio Catullo di Verona. In collaborazione con Grenze – Arsenali Fotografici.

Un workshop di fotografia con i ragazzi delle medie, o superiori che siano, non è mai senza conseguenze, non deve esserlo.
Perché il suo scopo non è tanto elargire nozioni tecniche sulla ripresa fotografica o sul fare belle foto (cosa sono, poi le belle foto?). Quando si insegna per la prima volta qualcosa a qualcuno, specie di così giovane, gli va spiegato cosa è quello che gli si propina. Insegnare a scattare le foto, con la macchina fotografica o il cellulare, non è alfabetizzare alle immagini, come insegnare a scrivere non è insegnare l’alfabeto, non solo, almeno. Alfabetizzare a scrivere, quindi a comunicare, ha a che fare col pensiero. E la stessa cosa vale per la fotografia. Ci sono generazioni, come la mia che sono nate a cavallo del turn pre – digitale, ci sono le generazioni che vanno a scuola ora (medie o superiori che siano) che sono nate nel digitale, pertanto questi strumenti gli appartengono, come alla mia generazione appartenevano gli strumenti analogici per creare contenuti-formulare pensieri-comunicare. Tuttavia, gli appartengono ma le generazioni di prima non sono abbastanza preparate ad alfabetizzarli, complice un sistema scolastico che guarda al passato quando non è obsoleto. Del resto, tutti usiamo i media 2.0 senza essere consapevoli di ciò che facciamo (ovvero comunichiamo per immagini e parole qualunque cosa).
Questi strumenti digitali implicano un rapporto molto più stretto col vedere, non che prima non fosse così, la percezione e la percezione visiva sono sempre state delle porte di ingresso cognitive, ma adesso il rapporto col vedere non è solo leggere testi e osservare immagini su libri e riviste ma interagire con interfacce video multimediali, ovvero composte da foto e testi quando non anche   da immagini in movimento e suoni e, in tempi come questi, non significa solo far riferimento a Internet e ai Social, basta aprire Google Classroom. Nella società della post verità e della post fotografia è doveroso educare, quindi, non tanto a scattare foto, ma a diventare consumatori consapevoli di immagini perché ne siamo pervasi, non solo come produttori di immagini, ma come consumatori: ogni contenuto che oggi ci viene somministrato è composto di immagini. Non sto usando i termini ‘fotografia’ e ‘immagini’ alla rinfusa. Alfabetizzare alla fotografia (definita esclusivamente dal modo in cui viene prodotta) non basta, serve alfabetizzare al più complesso concetto di immagini. Come districarsi nella lettura del mondo che ci viene raccontato attraverso le suddette? Si, le fotografie / immagini si leggono, non sono mai imparziali, né sono indice del fatto che il nostro cervello può rilassarsi perché ‘tanto guardo le figure’. Le fotografie hanno a che fare con una immediatezza che non può essere sottovalutata, sono dei ‘messaggi senza codice’ che paradossalmente sono di gran lunga più potenti / pericolose del linguaggio verbale, proprio per questa vaghezza e proprio per il fatto che non sono oggettive, come la leggenda vuole.E pensiamo alle immagini iconiche, i meme, le emoticon, linguaggi che a cavallo tra figure e parole, stringono il laccio al messaggio, strumenti immaginifici e potenti, ma pericolosi, se non si allena il pensiero-linguaggio verbale e visivo. Rischiamo di tornare a parlare, e pensare prima, a motti, altrimenti.

Immagini – immaginazione – immaginario.
Questi sono i tre step che, partendo dalle definizioni relative alla fotografia, al racconto e all’auto-narrazione, abbiamo cercato di scalare.
Lo abbiamo fatto semplicemente iniziando ad osservare il me e il fuori di me, perché non solo i fotografi, ma tutti, e qui entrano in gioco i Social, fanno auto-biografia, in modo inconsapevole e spesso raccontando una versione, perché, dove sta scritto che bisogna dire la verità? E infatti, dove sta scritto ciò, se la fotografia non racconta la verità ma una versione, e dove sta scritto se siamo sommersi da racconti e auto-racconti social che raccontano una versione?
Ecco che qui entra in gioco la fotografia come pratica autoriale: attraverso il lavoro dei grandi fotografi abbiamo visto la differenza tra ritratto / biografia e autoritratto / autobiografia: i ragazzi si sono fatti ritrarre da persone che hanno vicino, ‘come mi vedono / raccontano gli altri?’; poi si sono fatti l’autoritratto, ‘cosa voglio far vedere / raccontare di me?’ Abbiamo anche scoperto che si possono fare biografia / ritratto e auto-biografia auto / ritratto senza metterci le facce: non ha fatto la sua auto-biografia e il suo auto-ritratto, Sol Lewitt (che, tra l’altro, non era un fotografo), fotografando gli oggetti della sua casa? In modo metaforico, certo, facendo parlare gli oggetti, partendo dalla realtà ed escludendo la sua faccia, ma lo ha fatto. E’ quel modo metaforico che conferisce il quid al racconto e che implica l’immaginazione e l’immaginario.

Narrazione / ritratto, auto-narrazione / autoritratto, chi sono io, che cosa vedo?
Che vuol dire fotografare cosa vedo? Vuol dire anche solo osservare la più innocua quisquiglia, come ad esempio, ormai spesso consideriamo il cielo e poi volgere lo sguardo alle sue mappe, come ha fatto Ghirri, e sono subito fuori di me, e riscrivo subito la mia versione delle mappe – mai imparziali e mai definitive.
Nella seconda parte del corso, richiesta con grande entusiasmo dai ragazzi, abbiamo ragionato come la fotografia sia da sempre un grande strumento antropologico: un racconto dell’Uomo sull’Uomo, in grado di portare conoscenza e scoperta, nei più vari ambiti e attraverso i più disparati usi. Abbiamo anche visto come si può lavorare con la fotografia senza scattare fotografie, adoperando una storta di ecologia della fotografia, andando a ri-scoprire, ri-usare, ri-collocare, immagini già esistenti, creando nuovi racconti e nuovi contesti.
La fotografia è stata ed è uno dei più grandi media dell’antropocene. E parlare di fotografia, far fare la fotografia ai ragazzi in un momento di collasso del sistema, dove i rapporti sociali sono ridotti al minimo e si deve stare a casa, significa inevitabilmente, ancora più di prima, far scoprire ai ragazzi che si possono fare foto senza dover per forza uscire di casa, come? Conoscendo la found photography, l’ object trouvè, il   ready made. La pandemia ce li ha ri-dimostrati. E’ nelle difficoltà che risiedono le opportunità, detto di cui si è perso l’autore, ormai tanto è ab-usato. Ma un artista è la prima persona che può davvero far suo questo detto e accompagnare i ragazzi verso l’azione creativa, seppure limitata dai dpcm vari.
Chi sono io, che cosa vedo? Il passo successivo è stato lavorare sul territorio in cui viviamo, il paese, la città, il tessuto socio-urbanizzato in cui ci troviamo a vivere.
Che cosa vedo e come immagino il mondo che vorrei?
In tempo di collasso, è doveroso, più che mai, portare i ragazzi a riflettere sul mondo che vogliono, perché sono assuefatti da personaggi intubati, immagini di violenze, immagini di città vuote, immagini di povertà, immagini di presenzialisti alla tv il cui viso si fonde alle luci flash degli studi. Questa è la realtà alla quale assistiamo, ma voi, ragazzi, cosa vorreste, come immaginate il vostro mondo? Ci pensa mai qualcuno a fargli questa domanda, ai ragazzi? Perché io vedo che quando, con voce allegra e sorridente, chiedo alle classi di portarmi delle immagini che raffigurino il mondo che vorrebbero, che sono autorizzati ad usare l’immaginazione e soprattutto a dire la loro opinione, io vedo che gli brillano gli occhi, non gli sembra vero. (A me non sembra vero, invece, che siano rimasti affascinati e curiosi anche di fronte al più concettuale dei fotografi che gli ho fatto vedere, questo, forse, è perché i giovani non hanno i preconcetti degli adulti, il concetto di ‘ero bono anche io’ non ce l’hanno e soprattutto immaginano, ancora.) Non gli sembra vero che quel ‘facciamo come se’ che usavano da bambini possa usarsi a scuola, nella ‘vita reale’.
Immagini – immaginazione – immaginifico – fiction is acion.
Invitare i ragazzi a immaginare il loro mondo è un modo per agire attraverso la finzione, dire una cosa, fotografarla è già portarla qui e soprattutto è già portare il loro pensiero qui, che con il collage, diventa materico: una fotografia che ho scattato, o che ho trovato, che ho stampato e che diventa un testo visivo più ampio grazie al collage e all’unione delle immagini con la scrittura! Possiamo chiamarli dei diorami a due dimensioni. Il loro modello di mondo.
Mi auguro che quei modelli se li portino con sé, che abbiano il coraggio di immaginare e che si ricordino la cosa più importante che gli ho detto, tra tutte le nozioni: anche gli scienziati immaginano, non esiste un lavoro, un ramo di studi, di serie a e di serie b, che senza l’immaginazione non saremo diventati i Sapiens e in questo momento in cui siamo abituati ad un linguaggio di guerra, posso solo dire che vince chi immagina.
Valeria Pierini

La polis ricostruita per frammenti. Incompiutezza da abitare come forma dell’impermanenza. Il collage è linguaggio del riciclo ma anche dell’azzeramento degli statuti, della rottura tra opera e mondo, dell’appiattimento di ogni spessore disciplinare o contenutistico. I ragazzi reagiscono con un papiers collés fotografico alla rimozione in atto nei loro confronti. Responsabilizzati e svalutati, si fanno carico dello scarto che sono loro stessi. Il collage diventa forza centripeta con cui rinsaldare il legame tra polis (immaginata, utopica) e presente distorto. La loro è attività senza esclusi, senza marginalità. La realtà che ci circonda è un fatto del linguaggio che si deve imparare a padroneggiare ed ad articolare con i suoi simboli e le sue metafore, le sue ripetizioni, cioè con gli scarti. Ecco allora che il collage diventa un nuovo rapporto con le pratiche del riposizionamento nel mondo. Non hanno paura del vuoto, se i loro genitori danno al disordine della vita la spessa consistenza del minerale che ricopre l’esistente, per loro la realtà non è idealizzazione. Hanno capito che la storia è una storia di congiunzioni e disgiunzioni senza origine né fine. La storia è un collage, un insieme di collisioni e catene di incidenti. Per opporsi ad un sistema bisogna innanzi tutto riconoscerlo come fragile e precario. Fragile come la carta, precario come un assemblaggio. Queste opere post-producono la realtà sociale attraverso mezzi formali, mettono in luce quegli stessi montaggi di cui essa stessa si costituisce. Questi collage sottolineano la natura transitoria e circostanziale delle situazioni che strutturano la vita sociale, proprio perché tutto il resto afferma il contrario. Il nostro compito è mantenere vivo il concetto di intervento sul mondo: possibile solo con l’errore sistematico di una foto appiccicata ad un’altra.
Simone Azzoni

Matilde Moretto

Lucia Mattarolo

Marta Faccio

Lorenzo Resmini

Blow up. Laboratorio di fotografia. Esercitazione.

Foto di Silvia Bistacchia

Uno dei laboratori che proponiamo durante Blow up prevede di lavorare attraverso la found photography e la scrittura.
Silvia ha realizzato un diario del suo isolamento, scarno, con brevi appunti: una cronaca personale che riassume ciò che più l’ha colpita, una lista di cose importanti da ricordare. Le immagini, sono il filo conduttore, i testi dei memento. Poche riflessioni e conclusioni da parte di Silvia, poche parole, tanto quelle usate e le immagini sono monìto sufficiente. Il suo diario riprende le metodologie della narrative art rendendo un evento epocale restituito attraverso quanto di più forte i media ci hanno trasmesso: immagini e parole, aggiungendo poco e niente di sé, pochi commenti, nessuna emozione. Forse è il caso, anche stavolta, del silenzio, di osservare e registrare.

‘In the dark places’, Rosanna Vannini.

Da quando è uscito ‘Let England shake’ di PJ Harvey, nel 2011, ed è iniziata la sua collaborazione con il fotografo Seamus Murphy, abbiamo sempre tenuto in grande considerazione questo sodalizio artistico proponendolo anche nelle nostre lezioni. Come mai? A nostro avviso, quanto prodotto dai due è una delle commistioni più interessanti che partendo dalla musica, coinvolgono parole, fotografia e video. ‘Let England shake’ è una chicca, non solo un concept album ma un’opera corale che manifestandosi a più livelli (musicale, testuale, visivo) si mostra offrendo sempre crescenti livelli di comprensione e – soprattutto – immaginazione. E’ una bellissima prova di quanto e come fotografia e musica possono lavorare insieme, andando al di là delle foto promozionali o delle copertine dei dischi (cosa che comunque dimostra quanto musica e arti visive vadano ad aggiungere dei tasselli importanti della storia artistica contemporanea).

Un’opera che si compone di diversi tasselli e offre così tanti spunti, non poteva non far parte del nostro ‘Blow up’, il laboratorio dedicato proprio al processo artistico partendo dalle commistioni e ispirazioni che si celano dietro la produzione e la finalizzazione delle idee. Rosanna, si è guardata i video di Murphy, 11 video, uno per ogni pezzo del disco e ne ha studiato i testi, che sono diventati la sua piccola sceneggiatura: quanto posso discostarmi dall’interpretazione letterale dei testi di un disco che parlano di guerra? Posso davvero andare lontano rispetto al seminato? Una dimostrazione, non solo delle capacità immaginifiche di ognuno di noi, ma di come e quanto un’opera sia tanto più forte quanto evocativa pur parlando di uno spazio-tempo definito e storicizzato.

Corso di fotografia da ICAM – Isitituto culturale di arti e mestieri di Foligno. Esercitazioni.

Al corso base di fotografia di quest’anno, stiamo iniziando a lavorare sul ritratto e sull’autoritratto. Prima di addentrarci in questi due ‘generi’ fotografici abbiamo riflettuto sui concetti di ‘narrazione’ e ‘autonarrazione’ e sul concetto di ‘tempo’. Un po’ Sol Lewitt, un pò Gerard Richter, abbiamo iniziato a parlare di noi stessi, prendendo la strada più lunga, quella che parte dall’osservazione di ciò che sta fuori di noi, delle cose a cui diamo poca importanza, al fattore tempo. Ci siamo dati un metodo tassonomico, per farlo. Ogni capitolo di questo viaggio nel ritratto e nell’autoritratto aggiungerà una parte, una caratteristica delle singole vite che da dietro l’obiettivo si mettono davanti ad esso. Alle volte, mettendoci la faccia, altre volte mettendoci il loro mondo, il loro tempo.

 Foto di Graziano Pantalla

La seconda parte di questa esplorazione di noi stessi riguarda una via di mezzo tra il dentro e il fuori. Dopo l’esercizio sull’atlante personale che fotografava ciò che ci circonda, è arrivato il momento di ragionare sulla nostra identità ma attraverso gli oggetti. Una carta d’identità non narrativa ma descrittiva in 5 rigorosi punti-immagini. Cosa mi definisce, quali sono gli oggetti che mi caratterizzano, che possono essere indici delle mie caratteristiche? Se dovessi rimanere da solo in un’isola deserta, cosa vorrei avere con me? Domanda quanto mai attuale, visto il momento storico che stiamo attraversando. Dall’isola figurata all’isolamento reale, la domanda si fa stringente e pertinente. Di cosa ho bisogno in questo momento storico in cui sono isolato, quali sono le cose che, in questo naufragio, rimangono con me? Un aiuto in più a definire noi stessi attraverso i nostri oggetti, come gli eroi delle favole, anche noi abbiamo i nostri oggetti magici in cui ci rappresentiamo e che ci fanno sentire più forti, meno soli e unici. Identità e talismani, dunque.

Foto di Eleonora Panciotti

‘Scrivere con le immagini’, laboratorio di scrittura e fotografia, settepiani – servizi editoriali, Perugia. Progetti finali.

I progetti finali sono stati creati attraverso due fasi: un brainstorming in classe dove attraverso la visione dei diari d’artista della docente, sono state messe a fuoco diverse metodologie che uniscono fotografia e scrittura. In seguito, ad ognuna è stata assegnata una foto della docente che doveva servire da incipit per la finalizzazione dell’idea per il progetto. Ognuna poi, doveva scegliere quale modalità adottare, tra quelle osservate. In classe, la lezione successiva, abbiamo finalizzato le idee attraverso i libri messi a disposizione della docente. Perché tutto può essere un’idea e materia di storie.

Laura ha lavorato sul concetto di ‘contenimento’. Ha usato la partecipazione delle altre persone al progetto facendo scrivere ad ognuno (compresi i ragazzi delle sue classi del liceo) la propria idea di contenimento. Di contro, lei ha fotografato oggetti che rappresentano il concetto di ‘contenimento’. In questo modo Laura ha unito le interpretazioni personali di ognuno, seppure date con lo scopo di definire qualcosa, alle sue foto ‘didascaliche’. Non c’è scopo narrativo ma descrittivo delle esperienze personali e collettive. Un piccolo dizionario visivo e testuale che parte proprio dalla definizione del vocabolario e che va poi ad esplorare l’uso che noi facciamo di quel termine. Le foto qui, anelano ad una presunta oggettività, i testi, rendono l’umanità, il sentire delle persone dimostrando come le definizioni che diamo alle cose tendono spesso ad una connotazione di tipo personale, tassonomie che si vanno ad aggiungere ad altre tassonomie, rendendo così il dizionario umano tanto esteso quanto variegato.

La conclusione che Claudia ha tratto dalla foto consegnatole è quella di ‘pace interiore’, il paesaggio come stato d’animo. Durante le ricerche in classe la sua idea è stata sintetizzata in ‘imago mundi’ e ‘terra incognita’: dal paesaggio come stato d’animo immaginato e agognato a territori inevitabilmente sempre nuovi, perché ogni atto di scoperta implica un accrescimento. Ha quindi proceduto a creare dei dittici formati da ‘cartoline’ (‘imago mundi’) alle quali ha contrapposto delle sue foto (‘terra incognita’). Il caos contro la quiete: cromatica, compositiva, di pensiero, di indole. Quasi dei piccoli haiku visivi. Dove le linee sono minimali, i colori tenui. Anche qui non è il racconto che interessa ma la descrizione, attraverso la dinamica degli opposti, di stati d’animo. Perché più un’anima è consapevole e più rigorosa, chiara e anche poetica, sarà la sua visione. Claudia ha fissato su carta le ricerche fatte prima di iniziare a scattare. ‘Il 31 Ottobre del 1852 Henri-Frederic Amiel scriveva nel suo diario: Ogni paesaggio è uno stato d’animo, e colui che sa leggere in entrambi si meraviglierà di ritrovare la similitudine in ogni dettaglio. La vera poesia è più vera della scienza, perché è sintetica e coglie da subito ciò che la combinazione di tutte le scienze potrà al limite raggiungere un giorno come risultato. L’anima della natura è colta intuitivamente dal poeta, lo scienziato non può far altro che accumulare i materiali per la sua dimostrazione. Il primo resta nell’insieme, il secondo vive in una regione limitata. Il primo è concreto, il secondo astratto. L’anima del mondo è più aperta e intellegibile dell’anima individuale, perché alberga più spazio, più tempo e più forza per manifestarsi.’ ‘Il fotografo diventa poeta quando, al pari di quest’ultimo, riesce, nella sua rappresentazione, a trascendere la materialità dello spazio reale e a cogliere intuitivamente l’anima della natura. La fotografia diventa un’esigenza dello spirito , per soddisfare quel bisogno costante di nutrire se stesso. Nell’immagine del paesaggio l’anima individuale riconoscerà se stessa come parte dell’anima della natura, l’imago mundis diventerà una reductio ad animam ed ogni elemento acquisterà un significato simbolico. Non sarà più importante il cosa si fotografa ma lo stato d’animo che si vuole trasmettere; inquadratura, composizione, scelta del soggetto, uso del colore diventeranno un’unica espressione dell’anima.’

Di Nuntia vediamo gli appunti preparatori arricchiti da ulteriori foto ispiratrici di rilevanza sociale, avendo infatti scelto le foto di due reportagisti per concretizzare la sua idea.
Il brainstorming succeduto alla foto in consegna è stato: solitudine – isola – esilio, da sviluppare attraverso una carrellata di ritratti in primo piano di tante più persone quanto variegate.
Come vivono le persone ai margini sociali, come i carcerati, queste condizioni di estremo isolamento? Dove finisce il confine tra l’essere un’isola e un esiliato?

Con Francesca abbiamo lavorato alla costruzione di un ‘almanacco della leggerezza’ che si svolgesse attraverso una dialettica di opposti. Francesca ha trovato tutte le parole che le evocassero il concetto di leggerezza e gli ha contrapposto termini dai significati opposti. L’almanacco di Francesca si compone della definizione di ogni parola (definizione di dizionario) e di una foto che la rappresenta (found photograpy) alle quali lei ha accostato la sua personale definizione e interpretazione fotografica della stessa. Un modo, questo che ‘gioca’ sulla presunta oggettività delle definizioni, che lega un sapere e un fare di tipo enciclopedico ad uno strettamente personale, seppure ne usa la metodologia. Siamo frutto di interpretazioni, di uno scambio continuo tra (presunta) realtà e interpretazioni, tra percezioni ed emozioni. Ed è qui che ogni esistenza ha valore e speranza in quanto è qui che diviene creativa.

Serena ha dato una sua interpretazione di cosa voglia dire essere ‘regina’, scegliendo quella che prevede una via iniziatica, un percorso di auto-consapevolezza per il quale una persona ‘becoming queen’. Ha usato la scrittura diaristica, le citazioni (principalmente derivanti da testi di canzoni o da poesie) e, non contenta, ha chiesto ad alcune persone quale fosse la loro idea di regina. Questi due filoni si mischiano insieme ma non si contagiano: le foto, infatti sono l’interpretazione del percorso concettuale fatto da Serena, delle ipotesi, dei frame del probabile viaggio iniziatico. Perché non c’è un unico percorso di crescita, ma un continuo divenire: è giorno dopo giorno, che ognuno diventa regina o re della propria vita.

Picture of you. Workshop di fotografia per ragazzi da CAM – Corsi di Arti e Mestieri a Foligno. Esercitazione.

Abbiamo notato che tra i nostri iscritti, c’è chi predilige la poesia come Elena, e chi preferisce la scienza, come Camilla. A tal proposito, dopo aver visionato i lavori di Joan Fontcuberta, l”atlante’ di Luigi Ghirri e l”atlas’ di Gerard Richter, abbiamo proposto alla classe di compilare, ognuno a proprio modo il propio erbario. sono emersi, quelli di tipo scientifico, come questo di Camilla, e quelli che partono dall’osservazione scientifca e approdano alla poesia, come il secondo, di Elena. Quando abbiamo chiesto di farci un resoconto sui temi affrontati in questi due giorni, il commento unanime è stato: non pensavamo che la fotografia avesse così a che fare con la scienza e che si potesse fare arte anche con metodi e soggetti di tipo scientifico. Siamo molto orgogliosi!

Esercitazione collettiva, volta alla realizzazione dei progetti finali, del corso di fotografia da ICAM – Isitituto culturale di arti e mestieri di Foligno.

Soggetto: Palazzo dei Priori e e la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia. Come si racconta uno stesso tema con teste e occhi diversi?

Daniele, ispirandosi alla found photography e alle tematiche relative alla memoria, tanto care alla fotografia, fin dai suoi esordi, ha scovato foto d’epoca, a tratti usandole come bozzetti per le proprie foto, a tratti discostandosene. La visone ultima è il tanto caro ponte tra ‘passato e presente’ che si sussegue di generazione in generazione, importantissimo proprio per tenere allenata la memoria, come testimonianza, tuttavia, sempre con accezioni di carattere personale, ben lungi, quindi, dal testimoniare in modo oggettivo. Perché la memoria e il ricordo e l’occhio di chi fotografa, seppure agli inizi, non sono mai oggettivi e, per parlare di documentazione, storico o scientifica che sia, c’è sempre, da fare a priori un atto dichiarato di presunta oggettività.

Harriett ha creato tre sequenze di immagini concentrandosi su alcune sculture, una piccola catalogazione (altro tema caro alla fotografia), un archivio di volti, corpi e pezzi mancanti, a tratti fortemente decontestualizzati rispetto alle sale che li ospitano. Un po’ schedario, un po’ cartoline atipiche di un museo.

Loretta, come Daniele, si è ispirata al passato, usando foto d’epoca, che ritraggono la galleria e i suoi spazi, come traccia da seguire nelle sue foto. Com’è la galleria oggi? Quali sono le sale che vedo nelle vecchie foto? Come posso fotografarle?

Jennifer ha scelto di intervistare coloro che lavorano al museo andando poi a fotografare le suggestioni suggeritole dalle risposte. Quello che conta non è il nome di chi ha partecipato, ma il racconto di un luogo che diventa, corale, seppure eterogeneo, dove emergono non i dati anagrafici delle persone o storico/artistici delle opere, ma degli stati d’animo, delle idee di chi, tutti i giorni, è a contatto con la bellezza, come interviene l’arte quando accade nella vita delle persone. Per ognuno, Jennifer ha trovato una parola chiave che riassumesse il contenuto delle risposte, andando, a suo modo, ancora più oltre la mera documentazione/intervista, l’unico, questo, indizio personale dell’autrice.

‘Scrivere con le immagini’, laboratorio di scrittura e fotografia, settepiani – servizi editoriali, Perugia. Esercitazione.

‘Imago – o anche riscrivere le immagini’

Ho consegnato alla classe, a scatola chiusa, delle mie immagini, senza spiegare a quale lavoro appartenessero.
Questa è una foto di ‘the dreamers’. La sua interpretazione, attraverso la scrittura, ha colto i particolari esoterici, riscrivendo la foto con quanto basta di epica e mistero. Non è un caso che abbia scelto di far lavorare su alcuni dei miei lavori che prevedono la partecipazione delle persone, con questa operazione, infatti, ho permesso che la mia opera venga re-interpretata, non solo come accade nel processo di visione da parte di uno spettatore, ma rendendo la classe degli ulteriori partecipanti e sottoponendo l’opera ad un processo di scrittura ulteriore.

‘Fotografia e narrazione’, Cam – corsi di arti e mestieri, Foligno.

‘Quel profumo di erbe selvatiche’, progetto finale di Maila Guglielmi.

‘Quel profumo i erbe selvatiche’ è il progetto finale realizzato da Maila partendo dall’esercizio di cut-up svolto in classe. Il leitmotiv del workshop dedicato alla narrazione fotografica è stato la riflessione sul tempo, su come il tempo personale influisce nelle nostre foto e su come può  essere utilizzato sia come riflessione iniziale o come filo conduttore di un progetto. Quanto, quindi, ogni lavoro fotografico, seppure non autobiografico, porta con sé del tempo dell’autore?
E come si creano dei cortocircuiti temporali, delle storie che siano fuori da uno spazio tempo definito e soprattutto fuori dalla contemporaneità? E’ davvero possibile?
Maila si è guardata a ritroso, riflettendo sulla sua bisnonna che non ha conosciuto se non nei racconti di famiglia (primo scarto spazio-temporale) e ha indagato tra chi ha ancora memoria di lei appuntandosi come un reporter le testimonianze e si è fatta portare nei luoghi in cui questa sua nonna ha vissuto (altro scarto temporale dato che molti di quei luoghi sono diversi rispetto allo stato in cui versavano nelle narrazioni che ha ricevuto). Dati questi tre elementi, ha deciso di far parlare la bisnonna in prima persona, inserendo sotto le foto la sua scrittura a mano, come se fosse questa sua nonna a parlare sotto ogni foto-indizio. A questo punto siamo fuori dalla documentazione o il mero resoconto bensì di fronte a un esercizio di fiction e di metempsicosi, dove attraverso le immagini di cui è composto, lievi, a tratti posate, e luoghi i e temi specifici di cui si narra (il cibo, la spiritualità, la fatica, le ‘storie di una volta’, dei veri e proprio archetipi), ognuno può ritrovare qualche proprio antenato.

‘Mi rap-presento’, laboratori di fotografia, Liceo Pieralli, Perugia.

Sulla fotografia o anche del ‘chi sono io’

Durante i laboratori di fotografia al Liceo Pieralli di Perugia, ho chiesto ad ogni classe ‘cosa è la fotografia’ e ho chiesto ad ogni studente di presentarsi tramite delle foto a degli oggetti a loro cari, quelli di cui non possono fare a meno e che secondo loro contribuiscono a dargli la loro identità, ‘cosa ti definisce? Quali sono le cose che ti rendono riconoscibile?’ Ho altresì, in sede di esercitazione collettiva, realizzato dei ritratti, creando una sorta di annuario delle classi terze, censendo più di duecento studenti. Al di là degli usi prettamente scolastici e laboratoriali, cosa fare con tutto il materiale raccolto? E con le testimonianze raccolte in classe? E con quelle centinaia di foto di oggetti? Un ragazzo in una classe mi ha chiesto perché mi appuntassi le loro risposte in merito a cosa sia la fotografia, ‘per motivi di studio’, gli ho risposto. Le trascrizioni mi sarebbero servite quantomeno per ‘tenere memoria’ e come spunto di riflessione teorica e pratica. Ho tuttavia iniziato a ponderare su alcuni punti: il primo, è che avere circa duecento ritratti di ragazzi minorenni fatti su richiesta della scuola ma inutilizzabili altrove è quasi come non averne; il secondo punto è quello che mi ha fatto partire l’idea: ‘hai dei ritratti inutilizzabili, e molteplici definizioni di cosa sia la fotografia, parti da qui’. Ho allora lavorato per sottrazione: alle definizioni della fotografia, molte delle quali estremamente pertinenti, altre inaspettate, altre più ‘comuni’ – nessuna sbagliata, vista la grande versatilità del mezzo fotografico – ho scelto di accostare dei non-ritratti. Il ritratto è uno degli usi tipici della fotografia, non solo, in sede di laboratorio abbiamo proprio lavorato sull’auto-rappresentazione e su come ci rappresentano gli altri. Abbiamo definito cosa è una fotografia partendo dalla sua definizione scientifica e allo stesso modo abbiamo definito la narrazione e l’auto-narrazione declinando poi queste due enunciazioni alla rappresentazione fotografica. Cosa rende speciale un ritratto? Cosa rende riconoscibile una persona e cosa ha creato un alone quasi esoterico e magico verso i primi ritratti fotografici fin dalla fine dell’800? Un ritratto descrive e mette a nudo qualcuno, seppure con buona pace del fatto che l’oggettività in fotografia è solo una chimera, lo mette a nudo nel senso che chi viene fotografato, una volta che si osserva, si chiede ‘è così che sono? mi vedono così, quindi?’ – pensa tu quello che accade nella testa di un sedicenne. Ritrarre (in senso stretto) un volto significa rendere visibili in primis i tratti del viso: un volto senza gli occhi e poi senza la bocca non è più un volto. Quindi, la mia sottrazione è stata accostare alle definizioni della fotografia, qualcosa che sia ‘non-fotografico’ (non in senso di processo di produzione ma di contenuto): dei ritratti-non ritratti, dei volti-non volti. La terza riflessione che ho fatto è stata veder emergere dei  topoi in merito alle categorie di oggetti fotografate dagli studenti: ho notato che c’erano degli oggetti che ricorrevano anche più volte in una classe: i pupazzi di peluche e le cuffie per ascoltare musica. Ovviamente, anche altre categorie di oggetti si ripetono, ma in misura a volte anche di molto inferiore. Niente deduzioni tendenziose sui caratteri possibili che emergono o sulle storie dei ragazzi che possono venire in mente (non in questa sede), solo un dato di fatto derivato dall’accumulo seriale di tassonomie. Si presenta qui una piccolissima selezione visiva di queste riflessioni, quanto ho distillato del materiale raccolto, con in chiusura alcuni degli oggetti fotografati dai ragazzi.

Cose luoghi e persone, workshop presso Deaphoto, Firenze

‘Trovo rumore e musi lunghi’, Diego Cicionesi.

Quando ho visto per la prima volta TREML in classe mi è comparsa una sorta di scritta al neon nella mente: ‘lo spirito del tempo’.
C’è in queste foto e nel mood dell’autore quello che in tanti, anche solo tra chi ha le antenne accese, si percepisce: una melanconia latente, figlia di questa epoca che fagocita tutto ad una tale velocità da renderne ancora più difficile la comprensione. Ho trovato in questo progetto, di stampo più diaristico rispetto alla precedente produzione dell’autore, quantomeno per ciò che riguarda l’input di partenza, sancito nero su bianco poi sulla carta, uno specchio del tempo e dei sentimenti di molte persone. In sostanza di chi si rende conto di non avere molto interesse per la socialità mordi e fuggi, di chi percepisce ‘un mondo cattivo in vari modi e ovunque vai’*, un mondo che non dà tregua né tempo per concedersi alle affezioni, che non lascia spazio a forme empatiche di relazione e scambio. Le foto alle persone, sono proprio quelle che rappresentano questo concetto perché di fatto sono presentate come moltitudini informi in spazi e tempi indefiniti. Quello che è lento e visibile, schiaffato dritto in faccia all’osservatore, sono gli oggetti o i luoghi desolati e vuoti, quasi come fossero gli occhi, gli unici, che guardano il nostro tempo e queste persone che si muovono come in un termitaio, ‘dove vanno-cosa guardano?’.
Non c’è da parte dell’autore una critica aperta, una denuncia esplicita di stampo documentario, ma solo una presa di posizione che da se stesso guarda in fuori e ci si riflette, capendo che non è l’io ad avere ‘un problema’ ma che riflette e sente lo zeitgeist. C’è in queste foto, una normalità, un inquadrare le cose a cavallo tra la decontestualizzazione degli oggetti, quasi onirica, e il realismo. Poi ci sono le persone, intermezzi, quasi cacofonici, che sembra di vederle muoversi in quei terminal o di sentirne i passi, in un silenzio assoluto che però è mentale, quasi un desiderio, silenzio altresì impossibile da percepire in contesti del genere.
Un silenzio che in queste foto è l’istante, congelato da Diego, in queste ‘istantanee di inquietudine’,** per dirla col titolo di un testo a me caro. Perché del resto, nel workshop che abbiamo realizzato ‘cose, luoghi e persone’, si partiva dal testo e ad esso si ritornava. ‘Testo’, inteso alla fine del percorso, non solo come insieme di parole organizzate da una sintassi che esprimono contenuti, ma un testo fatto di immagini, anch’esse cadenzate, pesate, volte a raccontare, evocare, rappresentare, anch’esse dei contenuti; o un testo composto da immagini e parole. Sempre riflettendo, in realtà, su questo spirito del tempo, perché in questo workshop, di creare immagini a caso, non ce ne è importato nulla, e a quanto pare, tutto torna, il testo e lo zeitgeist.

* ‘Mondo cattivo’, Marlene Kuntz, Bianco sporco, Emi, 2005.
** ‘Istantanee d’inquietudine’, Norberto Luis Romero, Edizioni Arcoiris, 2012.

‘This mess we’re in’ Alessandro Comandini e Valeria Pierini

‘This mess we’re in’ è un dialogo semi-stonato tra due esistenze.
Partendo dalle suggestioni tipiche della narrative art, che vogliono l’uso di fotografie e testi come unicum, gli autori hanno dato vita ad una corrispondenza che lavora per richiami: visivi (si inizia col primo dato dall’incipit di Alessandro) e testuali, (il secondo, con l’ingresso di foto e testi insieme). Qui, la presenza dell’interlocutrice entra di prepotenza tramite un copioso flusso di coscienza di stampo diaristico e inedito: dalla carta all’opera a quattro mani, testi scritti, non elaborati o contestualizzati in altre opere, testi presi e usati come degli object trouvé o ready made, capaci – chissà – di dialogare con quelli di un altro e, forse, speranzosi di essere ‘custoditi, lavorati, distillati e masticati’ da qualcuno che non sia l’autrice. Si evince la grande lezione dell’arte partecipata, ovvero dare a qualcuno la propria esperienza affinché la rielabori fino a che non diventi altro, perché delle cose che accadono bisogna parlare fino a che non perdano forza o si trasformino, perché ‘pronunciare qualcosa è farla accadere*’ ed è qui che il limen tra realtà e fiction svanisce.
Nasce quindi una corrispondenza fatta di immagini e testi.
La scelta dell’analogico e della fotografia istantanea non vuole che esasperare la provenienza diaristica del progetto: impressioni visive e frasi e pensieri, dove non si sa dove finisce l’autobiografia e inizia la fiction. Quale miglior mezzo dell’imprevedibilità delle istantanee per fissare stati d’animo, per fermare l’evoluzione di una non-storia? perché non si stanno qui raccontando i fatti, né si documentano eventi o luoghi. L’unica traccia di narratività è scandita dal botta e risposta: testi uniti a immagini e immagini a volte da sole che rompono lo schema narrativo creato in apparenza; forse due monologhi scambiati tra due sconosciuti, dove l’unico filo conduttore sono le impressioni che ognuno fissa nelle proprie battute. ‘Il pasticcio in cui ci troviamo’ è una grande metafora, rafforzata dal finale che si accartoccia su se stesso dove il testo entra nella foto in un gioco di ‘vedo non vedo’, una metafora del pasticcio in cui ognuno si trova con qualcun altro in vari modi e mondi, o, sovente, da solo. E queste pagine di diari personali scambiate e assemblate, ce ne danno la prova, attraverso la finzione narrativa, che più di altri mezzi, riesce ad imbrigliare e raccontare la vita, al pari degli atlanti scientifici.

* Emily Dickinson
Tutte le Polaroid:  © Alessandro Comandini,
tutte le Instax:  © Valeria Pierini

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