Fotografia concettuale

Fotografia concettuale

Per descrivere qualcosa di concettuale, di solito, lo contrapponiamo a qualcosa di figurativo. 

‘E’ concettuale quello che non è figurativo’ e la coppia di opposti è servita.

La domanda che sorge spontanea ma che non è così poi scontata è:

dove finisce il figurativo e comincia l’astratto?

La risposta semplice è se l’oggetto della fotografia ha un rapporto di somiglianza col reale, di derivazione retinica, allora siamo davanti ad una fotografia figurativa, altrimenti siamo in campo ‘astratto’, ‘concettuale’. (Ovviamente i termini derivano dalla pittura e non a caso ma per costrutto culturale).

E invece no.

Non è la somiglianza a fare il figurativo, non solo, né a determinare il concettuale.

Partiamo da un dato storico e artistico:

il ‘900 e la perdita delle certezze in ogni campo del sapere. Fu allora che da Man Ray a Jung fu chiaro che grazie alla fotografia gli artisti erano finalmente liberi dal giogo della rappresentazione del reale e poterono esplorare l’interno, l’umano, il metafisico, l’emotività, il sogno, l’immaginazione. E fu così che nacquero le avanguardie artistiche le quali, comunque, comprendono anche la fotografia.

A livello ontologico va anche fatta una precisazione prima di continuare:

la fotografia non è meramente una forma d’arte. E’ riduzionista dirlo. La fotografia (letteralmente ‘luce’, ‘disegno’ da cui ‘disegnare con la luce’) è un’applicazione tecnica figlia del positivismo, nata grazie ai progressi portati avanti dalla classe borghese (che aveva mezzi e tempo) nei campi dell’ottica, della meccanica, della chimica e della fisica. La fotografia è quindi un’applicazione che è da subito stata usata nei più disparati ambiti. E’ importante distinguere una cosa dalla sua destinazione d’uso. La fotografia insegna che la cosa non è la sua destinazione d’uso perché questa non la definisce, o quantomeno la definisce in modo parziale.

Quindi, tornando alla fotografia usata in arte dobbiamo dire necessariamente che l’uso della fotografia in arte è solo una delle applicazioni di questo mezzo e che la fotografia non è un’arte di per sé, nemmeno quella d’autore.

Per parlare di fotografia concettuale va da se andare a spulciare nei meandri dell’arte concettuale.

L’arte concettuale (da Douchamp fino ai giorni nostri) è quel tipo di arte dove la parte preminente non è tanto e solo l’opera finale quanto piuttosto il processo di produzione che nasce ed è investito di senso dal momento dell’idea fino all’opera terminata.

L’arte concettuale è un’arte che ragiona sul suo linguaggio, che cerca di forzare i limiti del linguaggio usato.

Un esempio ce lo fornisce Attilio Colombo quando fa l’esempio di una fotografia stampata su tela: ebbene, siamo di fronte ad un elaborato che forza i limiti del linguaggio del mezzo usato. 

La forza dell’arte concettuale è la regia che avviene intorno all’idea, dove l’artista si serve di ogni mezzo disponibile e utile per dare a vedere la sua idea.

Dicevamo che la fotografia, nonostante il subitaneo valore documentativo a lei intrinseco e universalmente riconosciuto, è anch’essa parte delle avanguardie (si pensi a Man Ray), non solo, negli anni ’60 e ’70 è uno dei mezzi prediletti degli artisti concettuali (si pensi alla Narrative art e ad artisti come John Baldessarri e Christian Boltanski).

La documentazione e ‘il figurativo’ sono due dei grandi discrimini riguardo ciò che è concettuale e non lo è, tuttavia laddove siamo di fronte a tutto ciò che è fotografia ‘intimista’ il confine è immediatamente spezzato. La fotografia concettuale, potrebbe, pertanto, non esistere perché il confine tra la rappresentazione del reale, la regia di un’idea e la tipologia delle tematiche affrontate è costantemente eluso. Anche nello storytelling.

L’arte di raccontare storie si fonda sulle 5 paroline magiche: chi, dove, come, quando, perché e nel percorso del ‘viaggio dell’eroe’ postulato da Campbell e altri eminenti studiosi che si rifanno agli studi sulla fiaba di Propp. Questi canoni sembrano ‘limitare’ la regia di un’idea in campo narratologico invece mostrano un altro rapporto dello storytelling con la fotografia concettuale: è possibile fare storytelling anche attraverso un uso più concettuale della fotografia.

In anni come questi dove il nuovo dio è il portfolio fotografico e ormai anche i sassi sanno che per realizzare un progetto fotografico c’è sempre un metodo di fondo, ci sono fasi progettuali, ci sono idee e che uno non è che si alza la mattina e si improvvisa preso dal fuoco sacro dell’ispirazione, è nata quasi un’ossessione sul processo creativo, sulla progettualità e quindi si sono creati due filoni: 

quelli che fanno, studiano e usano i mezzi più disparati per raccontare le loro storie, con buona pace dello storytelling che a volte è più concettuale, altre volte più ‘canonico’; e quelli che hanno bisogno di restare nel ramo delle tassonomie, quindi nascono quadrati e muoiono quadrati – cosa legittimissima purché non marcata di quello snobbismo purista e novecentesco che fa rabbrividire tutti tranne le cariatidi rimasti a fare le letture portfolio che invece si sentono confortati da un uso così rigoroso delle etichette, anche perché, diciamolo, magari non saprebbero dove mettere le mani, altrimenti. La vita, anche fotografica, è questione di scelte e si sceglie se si conosce. Se si rimane nello zerbino della zona di comfort si può diventare bravi, sicuro brave repliche del nostro mito personale.

Questa cosa dello storytelling che può coesistere anche in opere concettuali va un attimo spiegata.

La spiego con un esempio: il jazz di Charlie Parker e la scrittura beat di Kerouac. Erano meno storie perché rompevano i canoni narrativi? Il punto è che lo storytelling, come ogni mezzo, può essere forzato, e laddove è forzato c’è ricerca, esattamente come nel cinema: il cinema d’essai rompe gli schemi e racconta storie in modo ‘inusuale’, il cinema mainstream è confortevole, segue preciso preciso lo schema narrativo canonico perché l’idea alla base e la funzione d’uso delle opere sono diverse.

Un’altra grande castroneria in fotografia è: una fotografia vale più di mille parole e non deve essere spiegata. Fatemi capire, denigriamo la fotografia di ricerca perché non si capisce ma poi non vogliamo alcun tipo di spiegazione? A scanso di equivoci sono i lanci delle agenzie di stampa, la pubblicità a dover essere subito comprensibili, non la fotografia. Pensate un po’ che il linguaggio della scienza che è universale ha bisogno di essere spiegato! 

Posto che alla base della fotografia, con particolare riferimento alla fotografia concettuale, c’è la regia di un’idea ecco che:

  • le opere, oltre che forzare i limiti del linguaggio usato, usano diversi linguaggi e media;
  • esiste un forte legame con l’immaginario: rendere visibile l’invisibile, l’interno, l’emotività, le idee.
  • Lo storytelling e l’ambito concettuale sconfinano ogni qual volta una fotografia stimola domande e immaginari (che è il compito dell’arte universalmente riconosciuto).
  • In campo concettuale c’è un grande uso della ‘fotografia tassonomica’ e delle pratiche post fotografiche (ma diffidate da chi vi dice che la fotografia concettuale è solo quella tassonomica o quella che si presenta in sequenze).
  • Ci si è distaccati dal rapporto con l’artigianato rispetto una data arte e una data conoscenza: il mezzo è funzionale alla realizzazione dell’idea quindi l’artista può avvalersi di diverse competenze provenienti di altri settori. Non solo, se l’artista concettuale ha potenzialmente infinite risorse alla quali attingere, il fotografo ha infinite risorse da usare (l’ultima è l’AI) potendo lavorare con la fotografia ma senza necessariamente scattare la fotografia (es. uso di immagini di archivio, l’uso del fotomontaggio). NOTA BENE: quest’ultimo concetto è un’arma a doppio taglio: non è che potendo usare la fotografia essendo slegati dalla meccanica dello scatto, allora siamo fotografi o tutto si può fare, o ‘allora so boni tutti’, come non è nemmeno immediato che la nostra sapienza fotografica è limitata alla meccanica dello scatto. Conoscere è avere mente aperta e non cadere in queste trappole cognitive che al tempo d’oggi riescono proprio bene.

Quest’ultimo punto, secondo me racchiude o esemplifica, in realtà, il grande dono, ancora troppo inesplicato e asserito della fotografia: ovvero che la verità è una cosa semplice ma sta nel mezzo. La fotografia concettuale, soprattutto, può davvero insegnarci questo mindset, a cavallo tra la curiosità dello scienziato e la creatività dell’artista. 

Diffidate dalle etichette!

Valeria Pierini

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