Apocalittici e disintegrati

Che Internet avesse dato la parola a milioni di imbecilli ormai lo sappiamo. Lo sappiamo fin troppo bene, visto che, alla bisogna, insultiamo qualcuno dicendogli di essere inetto solo perché non risponde in modo positivo allo scientismo dominante nella data materia del momento. Questo accade sempre e grazie alle manipolazioni (ignoranti e colpevoli, e consapevoli e colluse) del linguaggio. Infatti, io non mi sarei mai aspettata di sembrare una manichea o una purista della fotografia. Dico sembrare proprio perché attualmente se dici che non basta il discorso manipolatorio delle immagini per far annoverare l’AI nella gamma della fotografia, come non basta la somiglianza con le fotografie, allora vuol dire che sei un manicheo/purista. E’ semplicemente questo pensiero che mi ha mandato in pappa. Proprio alla luce del discorso sul linguaggio fatto sopra.

Mi chiedo chi si professa anti-specista che anti-specista sia, se lo sia alla luce di una conoscenza che implica comprensione profonda e quindi pensi e parli con cognizione oppure se sia figlio di una fluidità di pensiero che fa rima con imbecillità. Mi chiedo se è quel tipo di persona a cui piace fare l’artista figlio di popolo che però ha usufruito di tutti i percorsi offerti dal sistema (quelli classisti e neoliberal) mentre usufruisce dei privilegi del mainstream (essere stipendiato dalle accademie, essere in collezioni super-famous, e aver fatto il percorso di ascesa classico imposto dal sistema senza essersi posto alcuna domanda e magari anche aver proposto ‘una fotografia indipendente’ esclusivamente riproponendo i salassi economico-produttivi che propone il sistema, anziché tentare di esulare dagli argini del battuto) beh, allora stiamo a posto. Badate bene, non c’è nulla di male nel poter accedere ai privilegi della carriera, che si sia ricchi o poveri di provenienza. Non c’è niente di male purché si porti davvero il proprio contributo, purché sia di servizio agli altri, no con le frasi fatte, tipiche, di un certo indie sinistroide (sinistrato, dico io) dei trentenni di adesso. Purché non ci si limiti a fare la ricerchina ruffiana di moda ché così entro nel giro figo, ma a fare ricerca, a offrire una visione, argomenti anche  di accrescimento, anche a costo di non piacere a tutti, anche a costo di non entrare nel sistema purché si segua il proprio proposito, la propria essenza, purché la si conosca. Chi si conosce?

E’ curioso come molti che producono immagini con gli algoritmi si stupiscano quando qualcuno gli fa presente che non è fotografia. Ci rimangono proprio male di quanto le persone siano restie al cambiamento. Ma perché attaccarsi alla fotografia quando si fa arte visiva di ampio respiro, tra l’altro quando si è all’apice dello zeitgeist che sembra che senza di questi qua eravamo perduti-un algoritmo ci salverà? Prima vogliono essere artisti visivi e concettuali poi però non gli sta bene se qualcuno gli ricorda la definizione di fotografia – e la colpa è sempre degli altri, del fuori – e tira in ballo il concetto di ‘immagine’ ‘io lavoro con le immagini, le immagini sono ibride e ambigue da sempre’ e allora lavora co ste cavolo di immagini e non romperci le scatole, no? Hai letto Jung e Hillman e Mitchell? Ok, bene. Non ce la menare con l’essere ecumenico, chiamare un buddhista cattolico non va bene. Questo solo perché trascendere i termini vuol dire conoscerli altrimenti che trascendi? 

Credo che non bisogna guerreggiare tra tifoserie ma cercare di portare il proprio contributo, perché ognuno ha il diritto di esistere e di esistere come può, ricavando ciò che è degno di lui, ciò che gli è più congeniale. Quindi benvengano persone che ce la fanno, per quello che mi riguarda coi distinguo fatti sopra. Non mi piace lavorare contro ma per e con e soprattutto con modi opposti a quelli che vado lamentando. Altrimenti come posso portare la mia essenza col mio lavoro? Altrimenti sono un clone. Ho smesso da lungi di inseguire per forza l’approvazione del sistema per sentirmi arrivata, accettata e legittimata e questo mi permette di osservare i giochini-inconsapevoli o collusi-di chi nel sistema ci sguazza e propina verità dall’alto della sua carriera. Una carriera importante conta, è bella, ma per come stanno le cose adesso rimane appannaggio esclusivo di troppe poche persone. Chi ne rimane fuori rimane dalla parte dei vinti, degli eterni secondi, ai quali questo sistema non si volterà a dargli una seconda opportunità-nemmeno l’algoritmo-alla luce di questo smarmellamento tra AI e fotografia, del tutti fanno tutto. E chi rimane fuori rimane lamentandosene, senza cercare modalità di lavoro sostenibili, valide, indipendenti. Si rimane lamentosi e dunque dipendenti dall’approvazione, di modo che il proprio ego se ne stia tranquillo. Quanto dura la gioia del successo? E’ come una dose, molto poco e quando passa sono dolori e la vita fa tutta schifo. 

Ecco, secondo me questi dibattiti ci offrono molte opportunità, ad esempio quella di rivedere il concetto di privilegio: il concetto di privilegio legato all’estrazione sociale e al capitale è vero ma ci ha reso vittime inermi e lamentose – vedi trentenni sinistrati che parlano per slogan e poi scalpitano per l’open studio a Milano. Rivedere il concetto di privilegio vuol dire rivedere il concetto di successo, anche il concetto di abbondanza. Quelli definiti dal capitale sono veri, ma attaccarcisi ci rende soltanto vittime. Pensiamo, piuttosto, a rivedere il modo in cui ci approcciamo agli altri, le nostre modalità di lavoro così intrise di ‘devo’ ‘meno lavoro meno guadagno’ ‘se mi discosto da ciò che funziona non avrò di che mangiare’. Iniziamo a portare il cuore in quello che facciamo, a seguire il cuore e non la mente, così evoluta da anni di paternalismo da quattro soldi derivato dal cattolicesimo: senso di colpa, visione del lavoro come di qualcosa verso la quale sacrificarsi, visione del lavoro come qualcosa che non deve piacere, bisogna fare perché così si ha. Ma all’equazione ‘essere x fare = avere’ non ci pensa nessuno?Il privilegio è fare ciò che si ama, riuscirci coi propri mezzi, nonostante il fuori. Il privilegio – e questo è a monte di tutto – è conoscere chi si è, il proprio dono e portarlo tra le persone. Il privilegio è riuscire a farsi la cena nonostante le mille applications da fare per partecipare ai concorsi. Il privilegio è ricordarsi di vivere, consapevoli e di condividere il proprio talento con gli altri. Se questo non si percepisce come un’abbondanza, come possiamo metterci al servizio degli altri e avere un sano rapporto col denaro e col successo? 

La mente. La mente è quella cosa che leggendo queste righe non riesce a cogliere il nesso, si infuria e poi torna a lamentarsi perché i puristi della fotografia si attaccano di brutto alla fotografia e non capiscono le commistioni; o perché con l’AI si perde la partecipazione del fotografo al soggetto fotografato, l’attimo dello scatto legato all’esperienza di qualcosa che non si ripeterà. Aridaje. ‘Open your mind’ è un ritornello del ’97. Aprite queste gabbie dell’immaginazione! Apritevi alla conoscenza! Cercare le definizioni, le parole, uccide gli archetipi-immagini e li rende meri esecutori di categorie del pensiero, questa potrebbe essere la parafrasi di alcuni testi di Hillman. E non vuol dire che le immagini non vanno spiegate, o che non sta bene partire dalle definizioni delle cose ma che per aprirsi alla vera conoscenza vanno anzitutto accettate. No con l’accetta di questo è fotografia e questo no, ma con fare esplorativo. Vi sembra un fare esplorativo, vi sembra di far bene alla vostra causa così facendo? La vostra causa non è quella della fotografia. E’ palese che la vostra causa è la causa da fotoclub ortodosso e ignorante, quella da ansia da premitura del bottone. Io parlo della causa di tutta la fotografia. Fotografare in studio, un modellino, creare un fotomontaggio non è meno degno di scattare una foto a due che si baciano per strada (avete un senso del romanticismo che potreste far domanda alla nota azienda di cioccolatini). Vedete? È questo che rovina tutto. E’ l’ottusa ignoranza cantata in questa canzone ‘non c’è volontà di comprendere e questo corrompe la società cui riesce più semplice credere che i buoni son qua e i cattivi là’. Non esiste solo la documentazione e la poesia dell’attimo. Esiste una partecipazione molto più profonda di questo romanticismo ormai becero e approssimato, una partecipazione intellettuale e anche emotiva che muove i fotografi, gli artisti, quando lavorano ad un’immagine fotografica. Potete criticare l’AI solo se comprendete che la fotografia non è solo quella che conoscete/capite/fate voi. E soprattutto che, data l’ambiguità del mezzo, l’ibridazione della fotografia è a un attimo da ogni foto realizzata. Come bisogna capire che se chiamiamo fotografia l’AI per volere ecumenico la stiamo facendo fuori dal vaso, un tortellino è uno spaghetto? Accettiamo che: la fotografia può essere ibridata e manipolata, e questo da sempre; accettiamo che la fotografia è un’arte visiva, e questo dovrebbe essere appurato senza che lo dica qualcuno ma stiamo ancora qui ad aver bisogno di ribadirlo, anche agli ecumenici-questo perché hanno aperto le porte della percezione-talmente tanto che adesso un’immagine di AI la chiamano fotografia, accettiamo di lavorare con tutti i medium offerti dalla vita. No che lo fate quando ve lo dice la lobby, si chiama onestà intellettuale. Usate qualsiasi cosa ma chiamatela col suo nome e poi ibridatela. Io lo so che questo sembra manicheo ma proprio ho un difetto cognitivo nel vedervi ecumenici quando avete snobbato chi faceva ricerca visiva, anche spinta, propinando, poi, quando vi conviene, i ricercatori del momento. Sarebbe il caso che, adesso che vi siete aperti all’ecumenismo dell’ibridazione (e dico era ora), chiedeste scusa a tutti quei fotografi che avete rifiutato nel corso degli anni perché ‘troppo concettuali’, ‘troppo photoshop’, ‘questa non è fotografia è grafica’ ‘questo è disegno’ e l’anima de xx xxxxxxxx xxxxxx. E, se non avete l’agenda troppo piena di nomi da mandare avanti, magari, gli offriste qualche opportunità. Cogliete l’occasione di fare divulgazione attraverso le arti visive, una volta per tutte. Ma lo capisco che a molti non li pagano per questo e quindi saranno sempre parziali e si avranno le tifoserie. Chi soffre del vittimismo di cui sopra, che si è visto scartato per anni a fronte di altri, uguali a lui  ma che all’improvviso erano fighi, cosa dovrebbe pensare? E’ già tanto che vi blasta sui Social e non con l’accetta – magari prodotta da una stampante 3D. Faccio questa macabra battuta perché avete contribuito a generare – sì, voi selettori all’ingresso (o all’ingrasso, vedete voi) – un clima di frustrazione andando a mettere in palio lo scranno del vincitore, un modo piramidale che non può che generare tutto questo. E cosa è questo, se non l’uso e il consumo della definizione di privilegio data dal capitale?

Ancora una volta, a scanso di equivoci, mi preme ribadire che io che scrivo ho manipolato, manipolo e ho intenzione di continuare a farlo, la fotografia, in quanti più disparati modi mi è consentito. Ho applicato cieli pantone laddove il colore del cielo non era a me congeniale e continuerò ad applicare navi achee tra i faraglioni di Acitrezza, se ne avrò bisogno; nonché mi sono avvalsa dell’AI per riuscire a rendere visibili sogni o storyboard con soggetti improbabili da trovare all’occasione, uscendo fuori di casa, anche prendendo un aereo. Quindi io sono una fan delle commistioni – repetita juvant – ma la fotografia è una cosa e l’AI un’altra. Sono favorevole alle commistioni tra le due? Sì.

Si arriva sempre ad un punto dove le tassonomie vanno aggiornate perché – a causa dell’evoluzione – risultano manchevoli, non sono abbastanza, non riescono ad accogliere le nuove categorie del reale. Questo è uno dei casi dove l’uso del linguaggio deve essere – con buona pace della sua fallibilità e proprio per questo – chiaro. L’AI non è una tecnologia che permette di realizzare fotografie. Questo, al momento, secondo me, è un punto da chiarire e dal quale partire nelle discussioni e riflessioni condivise che devono essere per tutti e alla portata di tutti. Quando gli addetti ai lavori non sono chiari, in questo, tirando in ballo la manipolazione intrinseca nella fotografia equiparandole l’AI e assumendo questa alla stessa categoria merceologica, secondo me, è grave perché contribuisce a creare confusione, oltre che essere sbagliato.

A parte i risvolti creativi dall’AI questa è una tecnologia potenzialmente pericolosa. Certo, gli addetti – forti delle manipolazioni di cui sopra – parlano di ciò che gli compete, sia mai che qualcuno pensi e dica qualcosa di testa sua, in quanto Sapiens legittimato per specie a pensare e comunicare i suoi pensieri. Tuttavia il fatto che si taccia, il più delle volte, sul fatto che questa tecnologia è rischiosa, che non dia proposte educative, è spaventoso e potrebbe indurre a pensare di quanto sia probabile che seguano interessi di lobby. E’ grave anche nel dibattito che imperversa nel mondo fotografico. Vedere, guardare oltre! E’ lì che sta la bastonata, potenzialmente. Sulle potenzialità creative dell’AI, in arte, nell’arte visiva, potremmo essere già d’accordo a meno che non siate degli ortodossi colpevoli. Però, fatti i distinguo, parlato delle potenzialità creative, qualora usata l’AI in modo cosmogonico, con fare di scoperta, faccio una domanda: nessuno ha paura dell’AI?

Nessuno ha paura del fatto che a forza di menzionare distopie ovunque non ci si accorga di quanto ci siamo già dentro e di quanto rischiamo di esserci ancora più dentro, senza i relativi paletti e aiuti divulgativi? Ma anni di produzioni artistiche, saggi e filosofie non ci stanno servendo nemmeno a farci due due domande? La storia della fotografia ci insegna a capire come si insediano le evoluzioni tecnologiche, e conoscere i termini ontologici, per quanto sia possibile, deve, invece, proprio aiutarci a non essere lascivi. L’ambizione di accettare tacitamente i rischi dell’AI per inseguire l’ego (cavalco il momento), magari con la scusa della creatività, è un rischio che non mi sentirei di barattare così facilmente. Abbiamo visto cosa ha generato l’apertura incondizionata dei Social e del digitale, anche fotografico a tutti (rischi che dobbiamo ancora capire e digerire e sui quali dobbiamo ancora prepararci ad educare le nuove generazioni), siamo sicuri di voler continuare a fidarci della buona fede? Siamo davvero sicuri che non arriveremo al punto in cui l’AI non inizi a sopraffarci? Qual è il punto in cui la storia non va avanti come in passato ma si rompe? Siamo sicuri di questo, specie adesso che vediamo le evoluzioni fisiologiche e cognitive che il digitale ci ha regalato, soprattutto ai nostri figli? (Parlo della postura da cellulare che riguarda mani e schiena, parlo degli effetti degli schermi sulla vista, sul sonno, i disturbi di attenzione, la scarsità cognitiva e linguistica, e potrei continuare). Come eravamo venti anni fa quando abbiamo accolto il nuovo senza battere ciglio? Come siamo adesso, dopo averci messo 20 anni a capire che le macchine ci profilano e chiamavamo complottisti e reazionari quelli che si rifiutavano di aprirsi al digitale? Non sto dicendo che facevano bene. Dico che il dubbio aiuta ad avere sale in zucca. ‘Ho parlato con tal dei tali, un astrofisico ed esperto di AI che sta pregando di fermarsi prima che succeda per davvero Matrix’, questo è un messaggio che mi ha mandato una persona che si occupa di astrofotografia. Il punto non è tenersi stretta la fotografia o la sperimentazione. Come tutte le tecnologie l’AI potrebbe benissimo trovare la propria legittimazione e strada e questo è il primo pensiero che ho avuto quando le immagini AI hanno iniziato a girare. Non mi sono sentita poco fotografa molto fotografa, forse perché ho inglobato la definizione di artista visiva: uso spudoratamente ogni mezzo per dare a vedere le immagini che mi preme dare a vedere.  Il punto è preoccuparsi di qualcosa al di là della tecnologia che subiamo-usiamo-guardiamo tutti. Quello, il dibattito del settore fotografia, è uno specchietto per allodole, ricordiamoci che quando una tecnologia viene elargita è solo la punta di un iceberg immenso e non visto, ancora. Visto che ci piace ascoltare le voci autorevoli ricordiamoci che – arrivati dopo come Amen, dopo che ci hanno mangiato sopra tutti – ci sono scienziati e tecnici che stanno arretrando e lanciando allarmi, per attenzionare mecenati, lobby e opinione pubblica – come è giusto che sia – verso la nostra totale impreparazione e i rischi dell’AI che unite possono essere una combo letale. Avete capito che l’AI è in grado di produrre, ormai, elaborati visivi indistinguibili da quelli che siamo soliti fare? E non è questione di ‘fare artigianale’ è questione di non distinguere più il prodotto Sapiens da quello AI. Perché dopo tutti i discorsi sulle arti visive, la fotografia, l’accettazione, il sistema, il punto, grosso, di sistema è questo. E di questo se ne parla troppo poco. 

‘La mente è più vasta del cielo’, diceva Emily Dickinson, ebbene, io non rinuncio a sondare e nutrire le mie capacità cognitive, affittandole a una macchina. Negli agi la creatività è viziata e quello che non può favorire la mia evoluzione-anzitutto di pensiero e poi di opere-non mi interessa. Ho paura a delegare tutto ad una macchina. Certo, non sarà il caso dei convertitori text-to-image-ma preferisco considerarli una risorsa non un mio sostituto o la mia tecnica. Come può essere la creatività umana quando è o sarà atrofizzata dall’uso indiscriminato di AI? Già con Wikipedia il livello di qualità di studio e comprensione testuale si è abbassato e non da adesso, nonché si tende a credere a ciò che è scritto quando spesso non è confermato e perché sia mai che si cerchi di approfondire. Ma ci pensate alla creatività di chi abuserà dell’AI? Sì, casi limite, ma un problema collettivo. In primis in base a quanto saremo permissivi e abuseremo del linguaggio, secondo per empatia di specie. Lo so che forse sono discorsi retorici ma per una volta è il caso di chiedersi se invece che stare nel mezzo, non sia il caso di stare dalla parte dell’apocalisse, almeno per tenersi buoni quei dubbi che tanto possono aiutare all’evoluzione e perché di dis-integrati siamo pieni. Certo è che mi fanno scrivere tanto, questi qui.  E mentre il dibattito-sterile-infurierà per mesi, io me ne starò col mio libro in mano a cercare di ‘risolvere’ le mie immagini, cercando di capire come dare a vedere le mie idee e, all’occasione, chiedermi cosa la nuova tecnologia può fare per me, se ne vale la pena.

Cosa sono, cosa vogliono e cosa possono fare per noi le immagini prodotte con AI? Se l’è chiesto qualcuno anziché inveire con l’accetta?

Facebook