L’opera è il processo (anche con l’IA)

Ospitiamo questo scritto di Filippo Venturi in merito ad uno dei suoi lavori realizzati con l’IA più fortunati: He looks like you.

Riguardando oggi il mio lavoro He Looks Like You — su mio padre e mio figlio e sul loro incontro mai avvenuto — mi rendo conto che oggi sarebbe molto più semplice e rapido realizzarlo rispetto a quando l’ho concepito.

I software generativi basati sull’intelligenza artificiale sono diventati più precisi, più reattivi nel restituire ciò che chiediamo loro. Se nel 2023 dovevo generare migliaia di immagini, scartandone la quasi totalità perché insoddisfatto, prima di trovarne una che funzionasse e che mi stordisse a livello emotivo, oggi potrei ottenere in pochi minuti immagini nitide e commoventi di mio padre e mio figlio insieme, quasi senza errori, con pochi prompt ben calibrati. Ma proprio questa semplicità mette in luce, per contrasto, quanto sia stato importante per me il percorso tortuoso e frustrante che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo del progetto, diventando parte integrante dell’opera stessa.

In quelle notti infinite, fatte di tentativi sbagliati, di volti distorti e di false partenze, c’era il mio desiderio che si misurava con i suoi limiti. Ogni immagine conquistata non era solo un risultato visivo, ma l’esito di un rapporto — profondo, talvolta conflittuale — con la macchina, con la memoria, con l’assenza. La tecnologia non era uno strumento trasparente, era una presenza con cui negoziare, fallire e riprovare. E in quella frizione, in quella resistenza, si è sedimentato qualcosa di autentico: un processo che ha riflettuto la stessa impossibilità alla base del progetto, quella dell’incontro tra due persone che non si sono mai conosciute.

Paradossalmente, l’imperfezione tecnica dei software di allora mi ha restituito una verità emotiva più intensa. I volti appena riconoscibili, le forme abbozzate, i dettagli mancanti o sbagliati rispecchiavano fedelmente il carattere fragile e sfuggente del ricordo e del desiderio. Quelle immagini non cercavano la verosimiglianza assoluta, ma qualcosa di più sottile: l’eco visiva di un’assenza, il tentativo impossibile di creare l’irrealizzabile. Oggi, con strumenti più potenti, potrei generare un’illusione più convincente, ma forse meno sentita. Meno ossessiva e per questo, forse, meno sincera.

In definitiva, la fatica e la frustrazione non hanno solo accompagnato il processo: lo hanno definito. Sono state la prova che ciò che cercavo non era un’immagine perfetta, ma una forma di contatto, una presenza fragile tra le pieghe dell’impossibile. E questo contatto, proprio perché difficile e incerto, ha avuto per me un grande valore.

Filippo Venturi è uno dei tutor protagonisti del nostro corso Mappe, territori e partecipazione. Richiedi info scrivendoci qui: incontridifotografia@gmail.com.

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