Negli ultimi anni, sono proliferate pagine social e piattaforme che recensiscono fotografi, che siano storicizzati, professionisti o amatori con almeno un solido progetto alle spalle.
E’ un’iniziativa bella e lodevole ma si è rovesciata la bilancia economica perché queste piattaforme non lavorano per i fotografi piuttosto sono i fotografi (quelli non famosi, beninteso) che lavorano per loro mantenendole in vita con la condivisione e il pagamento di pedaggi vari pur di essere pubblicati, anche più volte. E’ come un fotografo che pubblica regolarmente con un editore, solo che in questo caso è il fotografo che campa chi lo pubblica. ‘Che fai come fotografo? Pubblico sulla tale piattaforma, e poi in questa, pago un pedaggio, perché sa che lavoro che c’è dietro, ma che soddisfazione, signora mia!’ Questi siti, quindi, sono mere pagine di redazionali a pagamento, magari anche di qualità, campate dai fotografi che pagano – letteralmente – per avere visibilità coprendosi dietro al fatto che si sta pagando un sistema democratico e non piramidale come il sistema mainstream, così chiuso e attaccato al pedegree sembra essere. Allora, se queste pagine vogliono davvero sostenere e promuovere la fotografia dal basso, dovrebbero: prendersi la RESPONSABILITA’ di: investire e trovare finanziatori che sposino la causa attraverso operazioni di vero e proprio mecenatismo (e come li trovano sono fatti e problemi delle piattaforme che tanto hanno voglia di pontificare sui e coi fotografi). Ora, se io pagassi un curatore, blasonato o meno che sia, ma comunque un professionista, per una recensione sarei considerata in termini professionali una quaraqquaqua, se pagassi questi qui, invece sarei un’autrice. Tra questo mondo di ‘autori’ e la vita vera c’è un grandissimo scollamento cognitivo. Investire e trovare il proprio modo di sostentare la piattaforma aiuterebbe, non solo a sostenerla, ma anche a dare qualcosa in cambio ai fotografi a fronte delle pubblicazioni – SAREBBE SOSTENIBILE E SEMPLICEMENTE COME DOVREBBE ESSERE. David Bailey, che a 27 anni era straricco e famoso, si faceva pagare e non pagava per i suoi editoriali. Il fatto che gestire queste piattaforme richieda tempo, energia e soldi è vero e sacrosanto ma non capisco perché questa deve essere la scusa per farsi pagare dai fotografi. E’ l’idraulico che vi paga quando viene a casa o siete voi a pagarlo? E il fatto che queste piattaforme rendano un servizio non sussiste! E’ semplicemente il ribaltamento della bilancia economica: sono io che faccio un servizio ai fotografi e allora loro mi pagano. Nessuno ha chiesto niente, mi pare. Mi viene da dire che quasi quasi si stava meglio 15 anni fa quando queste piattaforme non c’erano. Era pieno di fotografi frustrati ma almeno le economie erano più bilanciate e non c’era questo proliferare di buone intenzioni malcelate e questo fraintendimento di significati. Questo proliferare non fa altro che tappare i buchi nell’ego delle persone che pensano di essere autori. Dei wannabe il più delle volte che altro, e ciò genera non solo e tanto forme democratiche di divulgazione ma una vera a propria cacofonia visiva e intellettuale. L’autorialità, se si vuole risaltarla, va pagata, va ricompensata e non solo e tanto in termini economici o di visibilità ma in termini di esperienza e di accrescimento, di circuito e relazioni, sostenibili, virtuose e circolari. Perché dobbiamo mangiare solo quello che possiamo davvero smaltire e con la fotografia siamo a dir poco bulimici e insostenibili? Dare recensioni, articoli e pubblicazioni varie è lucrare sull’ego delle persone che invece di fare la fotografia vogliono fare i fotografi, vogliono essere gratificati dalle foto che producono. E questo non è sano. 15 anni fa questa dipendenza da dopamina non c’era. Ora questo meccanismo ha creato il bisogno e la conseguente dipendenza. Andrebbe bene se fosse virtuoso. Vendersi la mamma per ottenere successo (non apro la parentesi su cosa sia il vero successo, non adesso) inteso come visibilità come un non far marcire le foto nell’hard disk e avere la giusta dose di dopamina, è il sintomo di un male di sovraesposizione, ‘non ci sono non esisto’. E al diavolo i buoni propositi di far vedere ciò che resterebbe sommerso, il proposito è buono ma viziato.
Ci tengo anche a dire che molte di queste pubblicazioni (dei vari tipi che esistono) sono scadenti, con layout che non solo sono di scarso livello ma non valorizzano per niente le foto. Quindi questi qui non investono nemmeno sulla qualità editoriale delle pubblicazioni che spacciano, che siano siti, magazine o qualsiasi altro dispositivo. E questo è il primo principio alla base dell’editoria, quella vera, virtuosa, per non parlare di quel ‘saper fare’ che rende professionale qualcosa. Non è così che si dà spazio o si crea un contro-sistema, nemmeno un sistema alternativo, perché oltre che essere basato sull’ego e sul portafoglio dei fotografi, non è sostenibile, né virtuoso, né circolare, come ogni sistema alternativo al capitale dovrebbe essere. Altrimenti ne diventa una copia malvestita di presunte buone intenzioni e che – a livello autoriale – non genera crescita nel percorso dei fotografi, specie in chi punta alla carriera di autore. Siete consapevoli che anche altri attori del sistema agiscono così? Non vi viene in mente null’altro? Ecco questo modo pigro di voler fare cultura è il contrario di farla perché farla, implica il rischio di impresa e investimento, sia per gli artisti che investono la loro vita nella propria arte, sia per gli attori del sistema. I fotografi sono risorse perché dal loro lavoro si dovrebbero generare economie indirette a cascata sul sistema e sugli attori delle filiere. Invece, così facendo, i fotografi, che pure loro hanno investito in materiali, formazione, etc., sono solo dei bancomat. Mangiano tutti tranne loro. Vale la pena, allora, investire su una formazione che ci renda capaci di pensare, di pensarci come autori, se proprio vogliamo emergere come tali. Se quel successo non arriva, se quel mondo guarda da un’altra parte, voi che fate, non fotografate, non mangiate più? Se sapete solo fare le foto, quanto pensate che durate, se pagate per farle pubblicare, anziché darvi una postura seria e professionale di autori? La domanda vale anche se la fotografia la fate come secondo, terzo o quarto lavoro. Tutti che parlano di essere autori, di aiutarvi ad esserlo o diventarlo e nessuno che spiega finanza ed economia che sono fondamentali per essere autori, che se ne ricavi uno stipendio o una parte di esso, pure sporadica. Nessuno pensa in efficienza economica e questo perché la società è viziata, i fotografi sono pigri e avvizziti perché ‘tanto funziona così’ e quindi, magari, non si pongono il problema. Siete in grado di sapere, sapete come si lavora con le edizioni di libri e stampe fine art, sapete distinguere una fanzine da un libro d’artista? C’è bisogno di una consapevolezza che ci renda capaci di essere degni del mercato e meritevoli del lavoro autoriale che vogliamo svolgere. Non bastano le belle foto. Sapete come ci si distingue da un baraccone? Se pagate per la visibilità solo il baraccone vi aspetta e zero credibilità. Resterete inconsapevoli e ricattabili, magari pensando di essere autori ma un autore lo fa il percorso e le scelte che compie. Queste sagre social non sono niente, non hanno valore in termini bibliografici e quindi di autorevolezza del percorso. Anzi, in certi contesti pro, queste sagre social possono pure danneggiarvi. Lo sapete che non basta pubblicare per avere punti nel cv ma sono i contesti e come ci muoviamo in essi a determinare la qualità del nostro cv? Lo sapete cosa è un cv d’autore? Anzitutto è il cv di qualcuno integro e non ricattabile. Voi avete investito sul vostro ‘essere fotografi’, ebbene, gli attori del sistema dovrebbero fare altrettanto, altrimenti non si è in efficienza economica, solo in deficienza di ego.