Mettete dei fiori nei vostri cannoni

Riflessioni sulla rappresentazione dei conflitti nella cultura visuale contemporanea.

Sebbene il ritornello del titolo sia tecnologicamente obsoleto mi fa pensare al potere delle nostre immagini di guerra.
 
Il conflitto del Vietnam è stato il primo ad entrare nelle case delle persone, grazie alla copertura mediatica resa possibile da TV e giornali. Nel xx secolo la guerra è ormai parte dell’immaginario collettivo: abbiamo una rappresentazione visiva di ogni cosa, anche della violenza, tant’è che non da ora si parla di assuefazione a questa, specie da quando il TG mentre mangi te ne fa vedere di ogni. Il dovere di cronaca dei media ha pervaso il quotidiano, oltrepassando, se vogliamo, il racconto autoriale di fotografi che hanno reso immortali avvenimenti e persone. Oltrepassando, perché con l’andare del tempo le redazioni hanno potuto munirsi di squadre di reporter potendo, così, pervadere ogni angolo dell’informazione e coprire ogni tipo di media. Quindi, se prima gli autori che documentavano erano una ‘rarita’ con l’andare del tempo il loro lavoro è diventato – ancora di più – una preziosa testimonianza al di là della bulimia iconografica.  A tal proposito, tra le foto iconiche delle guerre del XX° secolo consiglio di andarsi a vedere ‘Napalm girl’ di Nick Út, il ‘Tank man’ di Jeff Widener, le foto del Quait di Sebastiao Salgado, oppure di cercare le foto di James Natchwey, o di scoprire le foto dell’assedio di Sarajevo, dove Mario Boccia, senza mostrare la violenza, racconta la resistenza degli abitanti.
 
I documentaristi prima erano tanto rari quanto necessari. Col passare degli anni e con l’avvento degli smartphone e della condivisione immediata di catastrofi appena avvenute, il lavoro documentario ha dovuto e deve tutt’ora ricavarsi nuovi modi di co-esistenza. Da un lato all’altro di questo pendolo va da se che il lavoro dei documentaristi era importante prima e lo è tanto più adesso. Con l’aggravante che una foto iconica possono, paradossalmente, produrla tutti trovandosi nel qui ed ora di una catastrofe. Iconica, cosa vuol dire? Vuol dire memorabile, vuol dire che richiama un qualche archetipo collettivo, vuol dire che mostra qualcosa che prima non c’era o che mostra una realtà che sembra uscita da una fiction. A volte basta davvero trovarsi nel ‘momento giusto’ con un dispositivo in grado di fare fotografie a portata di mano. Questo non sminuisce il lavoro dei documentaristi, lo rende ancora più importante, perché è ovvio che l’importanza del fotografo non riguarda il qui ed ora dell’avventore ma qualcosa di più profondo che ha a che fare con la professionalità, fatta di conoscenze specifiche e capacità tecniche.
Tra alcune immagini non autoriali diventate iconiche portatrici di orrore ci sono quelle di Guantanamo. A tal proposito consiglio di leggere ‘L’impronunciabile e l’inimmaginabile’ di W. J. T. Mitchell.
 
Di contro alla macabra tendenza mediatica, certi storytelling efficaci sono rimasti quelli che evocano il male senza darlo a vedere. Perché evocare è una grande capacità delle storie, anche attraverso le metafore che trasportano, letteralmente, significati. E’ un grande potere sei Sapiens, quello di narrare e le metafore sono uno strumento potentissimo.
 
Giorni fa ho visto la foto di un maxi schermo in una piazza in Yemen che proiettava le foto dei bombardamenti in quello che è l’ex Impero persiano. Allora ho iniziato a riflettere sulle modalità ormai pervasive della guerra. Ce la fanno vedere nelle piazze, tra le news. Ci bombardano con le news in ogni dove, dunque le news, anche visive dei bombardamenti, sono dei bombardamenti di bombardamenti, dei meta-bombardamenti. E non c’è solo la vista coinvolta, ogni tanto si sente da uno smartphone il rumore di sirene o di urla o di bombe che cadono, mentre tu fai una qualsiasi cosa normale, qualcuno scrolla e scrolla anche la guerra. Non solo la guerra si fa con la comunicazione ma si abitua la massa a questo stato di tensione (immagini, però, che riguardano gli altri, mai noi che siamo nella parte di mondo dove si dorme ancora) immagini, che in modo esplicito quanto sottile programmano il nostro subconscio. 
Altre immagini a loro modo iconiche che sembrano prese da una finzione e invece non lo sono:
 
Penso, nonostante tutto, agli artisti che offrono visioni manipolate, altre immaginarie, pur parlando di guerra, che è lo storytelling efficace di cui sopra, che offre possibilità di lettura e dunque azione sul reale. 
E penso ai maxischermi che offrono la rovina di altri popoli, altre città, in diretta: come a dire è così, il mondo è così. Un’informazione certo, ma che toglie ogni possibilità di vedere la luce fuori dal tunnel. E’ in momenti come questi che c’è bisogno di raccontare storie e di immaginare perché se storie e immagini costruiscono la nostra coscienza, allora forniscono anche possibilità di azione e condivisione delle istanze del tempo. Pensare al dopo, sì, ad un wolrdbuilding che sia di possibilità e inclusione ma soprattutto pensare all’Adesso. Queste storie e immaginazioni di worldbuilding hanno bisogno di rivolgersi all’Adesso, di essere pensate Adesso perché solo così possono intervenire nel futuro degli Adesso. Documentiamoci ma al contempo portiamo altrove quelle testimonianze, facciamone arte: ‘dividiamo con’ questo dolore, questo tempo, un po’ per uno, perché anche il dolore, se condiviso, genera significato e bellezza. Trasferire, con storie, metafore e immagini, conoscenza e possibilità di azione concrete non sono utopie. Sono il potere di chi fa arte e di chi la fruisce, sono l’utilità sociale dell’arte.
Ecco, mi viene da dire mettete dei fiori nei vostri cannoni, riferendomi con questo termine ai vostri obbiettivi.
Valeria Pierini
 
Foto 1, 2, 3: fonte: Facebook e Instagram, autore non specificato. Foto 4: Sapiens o anche notte di pace occidentale, Valeria Pierini.
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