La fotografia che vorrei. Un progetto condiviso

Una call aperta a tutti i fotografi, nata contestualmente all’Etica delle Immagini, la nostra tavola rotonda di gennaio 2025. La call ha raccolto foto e testimonianze relative al fare fotografia oggi. L’esito è la condivisione di parte del materiale durante la tavola rotonda (in replay qui) e questa mostra.

Arianna Sanesi

Vorrei che l’onestà intellettuale fosse uno dei valori faro del mondo fotografico, senza essere confusa con la brutalità o l’arroganza. Vorrei che qualcuno controllasse i controllori, e che I controllori fossero meno pigri: che la ricerca fosse appassionata, partecipe, curiosa, aperta. Vorrei che questa cazzata dei limiti di età fosse messa in dubbio ad alta voce (si ha paura di mettere in dubbio la partigianeria ed entro certi limiti posso capirlo, ma il limite di età ? suvvia) e non tramite messaggi privati. La fotografia non è ginnastica artistica-e comunque conosco una signora over 60 che fa trapezio, per cui. Mi sento fuori da qualsiasi club : in italia mi dicono che sto in francia, in francia mi dicono che sono italiana. Vorrei un respiro più internazionale, dopotutto siamo nell’era di internet. Più di tutto vorrei una fotografia, o più ampiamente un’arte trans disciplinare, questo arricchirebbe tutti. Basta categorie.

Alessio Rettaroli

La passione per la fotografia mi porta a studiare costantemente, a ricercare e approfondire gli autori più famosi legati all’analogico, e a scoprire i fotografi più contemporanei. In questa crescita personale, mi ha aiutato la competenza e l’esperienza di persone del settore che mi hanno indirizzato nella conoscenza di autori, di riviste, di profili e pagine sui social, di mostre ed eventi. Queste proposte mi sono state utili per passare dallo studio dei ‘soliti noti’ a quello dei ‘meno noti’ fino ad arrivare ai ‘soliti ignoti’. Senza un aiuto, sarebbe stata forse una ricerca più confusa e meno produttiva che rischiava di andare in direzioni diverse da quelle che cercavo.
Per me è diventata una necessità osservare la fotografia su stampa. Quindi, oltre a comprare libri, quando posso visito le mostre e i festival. A me piace vivere questi eventi intimamente, con calma e senza confusione, ma a volte diventa difficile, soprattutto in coincidenza dei vernissage. Capisco che sono momenti importanti per gli artisti, per gli organizzatori e per i finanziatori. La presenza degli autori aiuta a comprendere meglio il loro progetto, ma avere il tempo di fermarmi su un’opera senza l’assillo della folla per me è fondamentale.
Non sono un addetto ai lavori e giro i festival da poco tempo, ma da utente mi piacerebbe che ci fossero più proposte dei ‘soliti ignoti’. Mi è capitato di rivedere gli stessi lavori dei ‘noti’ in eventi diversi e per questo motivo nel futuro sarò più selettivo, anche se comprendo la necessità, da parte degli organizzatori, di dare uno spessore artistico attraverso le opere di fotografi con un valore riconosciuto.
Una cosa che mi ha colpito positivamente è la presenza di una sezione per le ‘fanzine’ inserita  nei festival di fotografia.
Ecco, le fanzine sono un fenomeno che rimane fuori dalle logiche tradizionali editoriali e ha un potenziale creativo enorme che si svela in eventi e librerie di nicchia. Ognuno può crearsi una fanzine, (l’ho fatto anch’io) ovvero mettere su carta il proprio progetto e renderlo palpabile, dargli un corpo oltre che un’anima. Secondo me questo dà un carattere di universalità a questa forma d’arte e di espressione. Secondo me meritano di avere più visibilità. Le semplici storie che ognuno di noi può raccontare meritano di avere un grande spazio.

Alfio Ladisa 

La fotografia che vorrei è una fotografia che rifletta su se stessa, che prenda coscienza delle implicazioni del nuovo mezzo digitale e mostri i suoi problemi, che esca dalla dimensione retinica (cioè il visibile) mescolandosi con i nuovi linguaggi dell’arte. Secondo Andreas Gursky, nel momento in cui è avvenuta la transizione dalla pellicola al digitale, ogni definizione precisa del termine “fotografia” è diventata impossibile. È da questa riflessione che oggi i fotografi devono iniziare a problematizzare la loro fiducia nei confronti del mezzo. Per me già è sbagliato usare il termine “fotografia” per descrivere il mio lavoro. Nel panorama fotografico nazionale auspico quindi di vedere più varietà, meno manierismo, e, soprattutto, meno retorica e meno trend “instagrammabili”.

Fred Cigno

Vorrei una fotografia più etica, più lenta e attenta alla comunità e all’identità e meno dedita alle logiche di consumo individualiste dominate dalla prestazione, dalla velocità e dall’utilizzo esibizionistico sfrenato delle immagini. Negli ultimi due anni ho insegnato fotografia a bambini dai sette ai tredici anni; ad essi come agli adulti cerco di trasmettere di andare oltre alla superficie e considerare l’interiorità, la materia e la collaborazione come elementi di studio e sperimentazione. Inoltre penso sia importante stampare e toccare le fotografie, avviare progetti che ibridi per aumentarne la portata comunicativa. Dal punto di vista sociale vorrei che si raccogliessero e conservassero con più attenzione le foto di famiglia e della collettività per mantenere la memoria; già nella scuola primaria bisognerebbe attivare un insegnamento per aiutare i bambini e le bambine a distinguere le fotografie e capire quali sono importanti e quali no, mettendosi al riparo dal bombardamento di immagini commerciali da cui verranno colpiti grazie allo smartphone e alla tv. Tuttavia, sono contento perché molte delle questioni sopra citate stanno già avvenendo, ma in questi periodi bui sarebbe utile impegnarsi di più combattendo l’ignoranza con la magia dell’arte.

Luca Baldassari 

Dalle sperimentazioni con una semplice scatola a foro stenopeico nascono visioni che rimettono al centro la lentezza, l’imprevedibilità e la meraviglia. Costruirsi da soli lo strumento fotografico significa affermare la volontà di esplorare, di non temere l’errore, di celebrare l’imperfezione come nuova possibilità creativa. In un panorama nazionale spesso appiattito su convenzioni estetiche e sui ritmi frenetici del “tutto e subito”, la fotografia stenopeica ci ricorda che la materia prima dell’arte è il tempo, lo spazio e il gesto umano. Quel che forse manca, allora, è un approccio maggiormente partecipativo e inclusivo: progetti nati “dal basso” che promuovano la condivisione di saperi, l’auto-costruzione, lo scambio libero di tecniche e intuizioni. Occorre una visione più aperta e corale, in cui ogni persona possa abbandonare la posizione di “spettatore passivo” per diventare protagonista attivo della propria ricerca fotografica. Immagino laboratori stenopeici nelle scuole, nelle piazze, in contesti sociali dove la macchina fotografica non sia un oggetto elitario, bensì uno strumento di dialogo e di scoperta di sé e degli altri. Auspico una fotografia nazionale che sappia prendersi meno sul serio, coltivando l’aspetto ludico e trasformativo che nasce dal confronto diretto con i materiali e le idee. Vorrei vedere più iniziative che invitino a fermarsi, ad attendere, a riflettere su ciò che accade dentro e fuori dall’inquadratura quando l’esposizione è lunga, quasi meditativa. In un’epoca in cui tutto è filtrato da tecnologie sofisticate, riscoprire la potenza di un semplice foro e di un foglio fotosensibile diventa un gesto di libertà e di apertura. Desidero, infine, un panorama fotografico che sia accogliente con le imperfezioni e le identità mutevoli, che riconosca il valore dell’errore come sorgente di meraviglia e ci inviti a sostare persino nell’immagine “non riuscita”, senza l’ansia del risultato, come parte di un processo che potrebbe svelare nuove strade inaspettate da percorrere. Attraverso la manualità e la pratica collettiva possiamo allenare uno sguardo nuovo, libero dai condizionamenti, capace di trovare la bellezza anche nell’incertezza. La fotografia che vorrei è quella che ci rende partecipi, ci interroga e ci trasforma, senza smettere di sorprenderci. 

Martina Biancarini 

Carpe Diem, cogli l’attimo. 

Questo è il mantra che guida il mio approccio alla fotografia. Ogni scatto è un’opportunità, un momento fugace da catturare con l’obiettivo, e per farlo è fondamentale osservare, ascoltare e comprendere chi abbiamo davanti. La fotografia che desidero è quella che riesce a restituire la realtà nella sua forma più genuina, dove l’istante immortalato racconta una storia, una verità, un’emozione. Immagino un mondo fotografico dove la spontaneità regna sovrana. Dove, ogni individuo è libero di esprimere se stesso senza il timore di essere giudicato. Ogni scatto diventa una celebrazione dell’identità unica di ciascuno, un ritratto della diversità che ci circonda. Non siamo più intrappolati in un ciclo di perfezione, ma piuttosto abbracciamo le nostre imperfezioni, che rendono ogni foto straordinariamente unica. È proprio negli errori, nelle incertezze e nei dettagli imperfetti che scopriamo la bellezza autentica della fotografia. Ho letto un articolo che sosteneva che la fotografia non potesse essere considerata un’opera d’arte, poiché restituirebbe solo il reale. È vero, ma il reale non è mai un concetto oggettivo; è il frutto della nostra percezione, del nostro stato d’animo e della nostra esperienza personale. Ogni fotografo porta con sé il proprio bagaglio emotivo e culturale, e questo si riflette nelle immagini che cattura. La fotografia che desidero è un riflesso di queste molteplici realtà, un caleidoscopio di esperienze umane che si intrecciano in un’unica narrazione visiva. In questo mondo ideale, il valore del tuo lavoro non si misura attraverso il numero di like o di follower, ma attraverso la tua passione, le tue competenze e il modo in cui riesci a trasmettere emozioni. È un ambiente dove la collaborazione e il sostegno reciproco prevalgono sulla competizione, dove ogni fotografo è rispettato per la sua unicità e il suo stile personale, dove ognuno rispetta l’altro e da lui prende iniziativa per creare qualcosa di nuovo e di bello ma non copiandolo. La fotografia che vorrei è, quindi, una forma di espressione libera, autentica e spontanea. Nell’ambiente fotografico dei miei sogni un’apprendista riesce a farsi strada, a farsi conoscere senza avere alcun appiglio importante ma semplicemente per la sua bravura e la sua capacità di trasmettere emozioni. Un mondo fotografico in cui il nome non precede la bravura, in cui si ha rispetto delle persone che stanno iniziando, si aiutano e non si sottovalutano solo perché agli albori. 

Matteo Cavadini 

La parola vorrei sottintende un desiderio, quale fotografia esaudisce questo mio desiderio? Una risposta molto complicata, mi viene in aiuto de André, “tu prova ad avere un mondo nel cuore ma non riesci ad esprimerlo con le parole”. Ecco quando un autore mette nel proprio lavoro qualcosa che sente profondamente, attraverso la fotografia (ma non solo, ad esempio anche la musica per me è molto potente) arriva al fruitore un racconto su più livelli, alcuni vanno ragionati altri bypassano quello che è il nostro raziocinio toccando direttamente l’emotività. Questa è la fotografia che io amo. Mi sento di dire che questa fotografia esiste già ma è difficile trovarla. Non è nei social frettolosi e superficiali. Non è nelle catene di librerie dove ci sono i soliti autori anche un po datati Non è in quelle mostre/festival nelle quali il curatore/curatrice deve presentare qualcosa di adeguato al luogo, agli sponsor, insomma al politicamente corretto ed a quello che è il senso comune di ciò che è presentabile. Io la trovo spesso nella piccola editoria, nelle librerie specializzate, nei festival liberi e nelle autoproduzioni. Un po’ poco, chissà quanti progetti non superano la soglia della visibilità per difficoltà che non dovrebbero far parte del bagaglio dell’autore. Nel mio piccolo d’autore, la fotografia ha accompagnato la mia crescita personale. La macchina fotografica è stata uno scudo attraverso il quale io ragazzino timido potevo guardare il mondo, poi ho avuto bisogno di guardarmi così ho iniziato ad autoritrarmi. Ora sto soffrendo la mancanza di trasparenza e l’ipocrisia che spesso è presente nei rapporti tra le persone, per guarire da ciò mi piacerebbe ritrarmi con altre persone.

Roberta Guarnera 

Vorrei una fotografia libera dal purismo (che poi è una lotta continua dalla stessa nascita della fotografia) che continui ad essere sperimentazione (chimica, visiva, narrativa). La fotografia è una porzione di una visione e questa visione può legarsi a dei tempi: passato, presente e futuro. Trovo limitante porre dei paletti su quale sia la vera fotografia e la “falsa”, trovo ancora questo ragionamento nel 2025 assurdo. Mi auguro che la fotografia nel mercato nazionale possa trovare solidità e più considerazione, anche qui è del tutto assurdo che la si ritenga un’arte troppo giovane, facendo un calcolo è nata esattamente 198 anni fa (considerando l’anno 1827, quando Nièpce e Deguerre incominciarono le loro prime sperimentazioni).

Sara Cameli 

La fotografia è un linguaggio espressivo capace di raccontare una storia, un vissuto, un momento. La macchina fotografica è uno strumento potente che ci permette di testimoniare ciò che è stato, proprio come spesso ci capita di soffermarci a osservare il secolo scorso. Lo scatto è il fermo immagine di un attimo di vita, la descrizione di un’emozione.
Che mondo sarebbe senza la possibilità di testimoniare ciò che abbiamo vissuto? Io sogno un mondo in cui la fotografia venga apprezzata come forma d’arte, capace di emozionare lo spettatore. Ma esiste anche la fotografia di denuncia sociale, quella dei fotoreporter che mettono a rischio tutto per raccontare le atrocità delle guerre. Ognuno racconta la propria storia vissuta. Io racconto la mia, attraverso fotografie che esaltano la bellezza: attimi in cui il mio sguardo attraversa il corpo della macchina fotografica e, con un semplice click, l’anima della fotocamera cattura quell’istante.

Valerio Flavio De Marco

La fotografia che desidero immaginare è un ponte che unisca le diverse generazioni di fotografi in Italia, creando un dialogo tra visioni e approcci distinti. Da una parte c’è la generazione della fotografia analogica, ancorata all’idea che quella sia la vera essenza del medium: un’arte grezza, dove la luce gioca un ruolo secondario rispetto alla narrazione. Tuttavia, questa generazione spesso ripropone gli stessi racconti fotografici, talmente reiterati da apparire stantii. Qualsiasi novità viene ignorata o snobbata, e la loro parola diventa legge. Dall’altra parte c’è la generazione della fotografia digitale, focalizzata quasi esclusivamente sugli aspetti tecnici: dalla post-produzione estremamente dettagliata all’ossessione per l’attrezzatura più avanzata, vista come imprescindibile per lavorare. In questo contesto, la narrazione e la profondità storica sono quasi del tutto assenti, rimpiazzate da una ricerca estetica fredda e spigolosa. Una generazione che spesso desidera risultati immediati e, dopo un primo corso, si autoproclama già professionista. Questa mia riflessione nasce dall’osservazione diretta del panorama fotografico che mi circonda: mostre, salotti culturali, e persino semplici conversazioni in chat. In tutto questo non ho riscontrato una reale comunicazione tra queste due generazioni, entrambe chiuse nei propri confini, volutamente cieche e sorde l’una all’altra. La mia speranza è che si possa costruire un dialogo autentico tra questi mondi, un ponte che permetta alle due generazioni di arricchirsi reciprocamente. Solo così la fotografia potrà evolversi, abbracciando sia il valore della tradizione che l’energia dell’innovazione.

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