idf/academy: LFLETQ, fotografia e pittura

Fotografia e pittura

Questo è il binomio maledetto.

La fotografia ha tolto alla pittura il compito della rappresentazione perché il soggetto della foto è un qualcosa di reale. Diciamolo meglio: per qualcosa di reale possiamo solo intendere qualcosa che riflette la luce a prescindere dalla sua ontologia. Un esempio è la fotografia ad un modellino o a una veduta: il rapporto della fotografia con la verità è solo questo, l’aver catturato qualcosa che riflette la luce e dunque esiste in quanto tale, o è esistito nell’immanenza. La foto del modellino è vera anche se il modellino è una riproduzione della realtà e il modellino è reale in quanto riflette la luce catturata dalla fotografia.

Quindi spezziamo, ancora, una lancia a favore del fatto che entrambe, pittura e fotografia possono sia rappresentare la realtà o rappresentare immaginari. Nella pittura, anche iperrealista, la mediazione è data dalla mano del pittore, in fotografia questa mediazione non esiste, a meno che non si usino particolari tecniche di sfocature o simili, pertanto è sempre un atto voluto quello di rendere il soggetto somigliante o interpretato.

La fotografia arriva al tempo del realismo, del romanticismo e dei primi esperimenti di impressionismo, dove i pittori lavoravano sulla luce, in pratica. La fotografia si è insinuata nella pratica dei pittori che non l’hanno denigrata fungendo da bozzetto preparatorio, sostituendo ore di pose.

Il forte accademismo dell’epoca, che già in precedenza aveva ostacolato pittori come Courbet, ostacola la fotografia (ed è sempre per le sue peculiarità, per la sua ambiguità e per il dato ingenuo che vuole che la fotografia non interpreta ma dice la verità). Il forte manierismo dell’accademismo che vuole un manufatto artistico fortemente legato all’artigianalità non ha favorito l’uso della fotografia. In sostanza fare ricerca era molto legata all’uso artigianale della tecnica. La riproducibilità della fotografia è un altro fattore che non ha giocato a suo vantaggio insieme al fatto che non necessariamente richiede conoscenze artistiche per essere fatta quanto piuttosto, almeno in apparenza, tecniche e chimiche. E’ curioso pensare che, in fin dei conti, anche la pittura è data da fattori tecnici e chimici (si veda la storia dei colori in pittura, dalla cui evoluzione è dipesa l’evoluzione dell’arte pittorica). Quindi, cosa sono le conoscenze artistiche? sono conoscenze che nascono applicando i procedimenti tecnici al servizio di un tema, unendo un sapere tecnico-artigianale alla ricerca di un risultato che parli di altro e generi senso. Altrimenti si resta nell’ambito della dignitosissima esecuzione artigianale.

Come sempre accade, anche questo momento storico di rottura è diventato un momento di propulsione.

Prima della fotografia la pittura era deputata a ritrarre i volti delle persone: dei notabili, le persone di cui tener conto e memoria. La fotografia ha permesso, via via, a sempre più fasce di popolazione di farsi fare almeno un ritratto nella vita. Le persone si vestivano col vestito buono per l’occasione e spesso, con quelle foto ci finivano nella tomba. Pensate a come è cambiato, in base a questa cosa, il nostro rapporto coi cimiteri, con la morte e con la memoria. Pensate a quante persone dei secoli passati non hanno lasciato nessuna traccia del loro volto. Di contro pensate cosa hanno alimentato e alimentano le fotografie vernacolari, vintage, che continuano a spuntare nei mercatini e pensate a cosa succederà col grande archivio che è internet!

Il grande balzo è stato fatto grazie all’introduzione della Kodak che ha permesso a sempre più persone di ‘diventare fotografi’ e di immortalare la propria vita senza ricorrere al ‘fotografo dello studio’. Pensate al rapporto che abbiamo instaurato con gli eventi della nostra vita: abbiamo iniziato a fermare nascite, cerimonie, compleanni e ogni rito di passaggio di famiglia e amici, le vacanze sono diventate fotografabili. Tutti costumi della memoria che prima non esistevano. Su questo Italo Calvino ha scritto il memorabile racconto ‘L’avventura di un fotografo’ che spiega benissimo, percorrendo anche molte tappe della storia degli usi della fotografia, cosa è successo.

(Incontri di fotografia ha un corso che prende ispirazione proprio da questo fondamentale racconto, n.d.a.).

La fotografia, da ‘vezzo sostitutivo’ della pittura ha contemporaneamente soppiantato questa e l’illustrazione a partire dalle redazioni dei giornali che grazie agli avanzamenti della tecnica si sono dotate di sempre più efficienti macchine da stampa.

Con l’avvento della fotografia, che ai suoi albori richiedeva competenze tecniche e chimiche e richiedeva tempi di scatto molto lunghi e aveva attrezzature pesanti, nacque la figura del fotografo professionista, ovvero colui che aveva uno studio e faceva ritratti alle persone e documentava gli avvenimenti sociali. Dicono che a Parigi a fine ottocento e inizio novecento si contassero centinaia di studi fotografici. Le fotografie prodotte in quegli anni erano di derivazione inevitabilmente pittorica: composizione, allestimento del set, pose. Sfatiamo anche il mito che vuole che fossero tutti seri, a quel tempo: le facce delle persone nelle foto di quegli anni erano serie perché i tempi di posa erano lunghissimi e non permettevano pose diverse perché non erano in grado di catturarle. Nacque la corrente pittorialista che attraverso set specifici e l’uso di soggetti e canoni neoclassici si rifaceva, in totale armonia con gli ideali romantici, all”epoca classica. Sfatiamo il mito che vuole i programmi di fotomontaggio essere il male assoluto: le foto di questi pittorialisti erano composte da 3 se non anche da 5 lastre diverse: ognuna catturava al millimetro una porzione della foto che in sede di stampa veniva assemblata in una fotografia unica. Un procedimento simile lo usa ai giorni nostri Irene Kung.

Arriviamo ad una questione spinosa per la fotografia: il rapporto secolarizzato che abbiamo con le immagini iconiche, fornite, per lo più dalla pittura ma anche dalla scultura. Pensiamo all’eventualità di guardare una fotografia e dire: ‘sembra una pietà’. Questo è dovuto alla nostra cultura visuale o per dirla con Jung, al nostro inconscio collettivo che possiede la stratificazione delle immagini e che ci fornisce le chiavi di lettura del mondo. Questa cosa succede anche se non era nelle intenzioni del fotografo farla accadere. Dice James Natchway che trovare la figura della pietà in una foto di guerra è qualcosa che esula dalle intenzioni del fotografo: una madre che piange un figlio è una questione universale, un archetipo, tornando a Jung.

Un altro modo di dire quando si guarda una fotografia è: ‘sembra un quadro’. La pittura ha bisogno di spazio per raccontare le sue storie (pensiamo alle pale d’altare e alle predelle che anticipano, dopo i bassorilievi antichi, l’uso dello storyboard, della sequenza e, se vogliamo del cinema) e anche la fotografia ha avuto questo bisogno: le prime stampe erano piccine e via via, con gli usi disparati che gli artisti ne hanno fatto è diventata sempre più grande. Forse è stato Jaff Wall uno dei primi a proporre negli anni ’70 fotografie stampate grandissime, pensiamo anche alle fotografie di Gregory Crewdson. Questo accade perché il tipo di fotografia che fanno, oltre che avere una grandissima definizione, è creata seguendo i canoni compositivi della pittura e poi del cinema. Jaff Wall ha addirittura citato un quadro di Hokusai (‘A sudden gust of wind – after Hokusai). In Italia pensiamo al filone ‘ermeneutico’ con l’Ofelia di Silvia Camporesi, anch’essa stampata grandissima. Quindi, ci sono, oltre gli archetipi e l’ermeneutica, dei motivi per cui ‘una foto sembra un quadro’: la fotografia, consapevole o meno, usa delle grammatiche tipiche della pittura che è nata prima e che addirittura nelle regole compositive si rifà ai canoni antichi e classici. La fotografia ha solo due secoli e noi queste grammatiche precedenti le abbiamo in dotazione culturale. I nostri archetipi vengono sempre prima delle foto che guardiamo o che facciamo e – nonostante la pervasività delle immagini – siamo ancora pigri tenendo la pittura come riferimento (anche inconsapevolmente) anziché i nuovi canoni offerti dalla fotografia. Sicuramente accade anche per economia di linguaggio, del resto la pittura ha fornito alla fotografia molti modi andando ad essere sostituita da essa. Pensiamo ai formati ‘portrait’ e ‘landscape’ usati in fotografia, sono modi e quindi linguaggi presi dalla pittura. Perché di un dipinto diciamo ‘sembra vero’ e di una foto ‘sembra un dipinto’? Eppure la scena che ha visto nascere la fotografia è esistita. Hopper, ad esempio, può aiutarci a entrare nel mondo di Crewdson ma non lo può esaurire perché la fotografia dice sempre qualcos’altro e, specie quella di Crewdson, necessita della partecipazione dello spettatore, esattamente come la pittura di Hopper. Quindi il paragone ci sta ma non vale a liquidare la questione, altrimenti è solo un’altra dannosa etichetta.

Bisogna essere di mente aperta per aprirsi ai linguaggi e ad essere a favore dei linguaggi che si parlino.

Le regole che usiamo (una su tutte quella dei terzi) sono antiche e forse, perché basati su parametri matematici, ci danno una vaga vicinanza al concetto ‘oggettivo’ della bellezza, perché a livello matematico risultano armonici. E’ l’armonia la chiave per la bellezza, serve a interagire con l’opera, quindi il legame con la composizione è fondamentale (pensiamo alla musica o pensiamo se leggessimo un libro dove ogni riga è scritta in una lingua diversa) perché le opere ci parlano proprio alla luce della loro armonia. Vale la pena usare i linguaggi e sperimentare, evitando le regole quando diventano gabbie! Che vuol dire quindi brutto: illeggibile che ti respinge anziché catturarti (badate bene non si fa il verso all”arte facile’, il libro scritto liscio che si legge da solo o il film che segue lo schema narrativo canonico filo e per segno). Un’opera è bella e armonica anche quando rompe le regole. Bello e comprensibile sono due cose diverse.

Con questi canoni ci abbiamo costruito il mondo. Non sono quisquiglie.

Impariamo a valutare una foto in quanto foto a ad articolare il modo in cui la paragoniamo alla pittura, se questa la chiamiamo in causa. E’ sempre una questione di pensiero e linguaggio, sia visivo che verbale.

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