Fotografia: ‘disegnare con la luce’.
La fotografia ha nelle sue potenzialità e declinazioni d’uso il suo successo e le sue pene. La fotografia è un mezzo ambiguo perché non presuppone un solo uso e una sola destinazione e questo da quando è nata, ormai due secoli fa.
L’unica definizione che può inglobare tutti gli usi della fotografia – che prima di essere quello che noi vogliamo, in base a come la usiamo e pensiamo, è meramente, dispiace dirlo per i romantici che ne soffriranno, un’applicazione tecnica – è quella che ne spiega l’uso e la nascita: la fotografia è un’immagine prodotta attraverso un dispositivo fotosensibile in grado di catturare la radiazione elettromagnetica riflessa da un materiale opaco. Questa definizione vale per la fotografia analogica fino ad arrivare ai raggi x e le risonanze magnetiche che sono in grado di catturare anche lo spettro non visibile della radiazione elettromagnetica: la risonanza, addirittura, cattura le onde sonore. Le modalità di produzione delle immagini fotografiche sono ciò che le definiscono, e questo da sempre. Nella nostra epoca, molti artisti o addetti ai lavori, nell’ambito delle cosiddette ‘post fotografia’ e ‘meta-fotografia’, sovente preferiscono parlare genericamente di ‘immagini’ proprio a seguito dell’ibridazione delle fotografie con immagini non fotografiche o con fotografie reperite e ibridate con i più disparati procedimenti. C’è da dire, anche qui, che le prime avvisaglie di ciò che si è verificato nell’epoca post fotografica, meta-fotografica, c’erano già state con le avanguardie. Un esempio su tutti è la riappropriazione di fotografie già esistenti riusate in ambito artistico. Una manipolazione diversa da quelle digitali ma pur sempre un rimescolamento di senso attraverso il cambio della destinazione d’uso delle fotografie. Ce lo insegnano Duchamp e Cornell, quest’ultimo, addirittura con gli oggetti, e poi con materiale foto e video. Non abbiamo tutt’ora fatto in tempo ad uscire, finalmente, dalle logiche novecentesce riguardo l’uso della fotografia, che ci troviamo a dover fare distinguo su cosa è fotografia e non lo è, sembriamo dei pensionati al fotoclub. E’ terribile, tutto questo. Tornando alle manie novecentesche, ad esempio, c’è ancora chi ha un atteggiamento ortodosso verso il bianco e nero, c’è chi rimane ‘straight’ verso l’analogico e chi non concepisce – colpevole, ormai di ottusa ignoranza – che qualsiasi ibridazione del fotografico e qualsiasi ambiguità ad esso legata è intrinseca al mezzo, e lo è da quando è nata. Un esempio riguarda la presunta manipolazione delle immagini: si avvisano i detrattori della post produzione che: con i processi analogici le foto vengono esposte almeno 3 volte, in base a combinazioni matematiche di tempo e apertura, e in base alla creatività del fotografo. C’è da dire, anche, che già da fine 800 le fotografie venivano montate attraverso l’uso di più lastre che andavano a creare un’unica immagine (Robinson e Rejlander), esattamente come noi, da venti anni a questa parte facciamo con Photoshop, prendendo un pezzo di una o mille foto e montandolo su altri. Va da sé che la manipolazione si faceva anche dopo il pittorialismo dei due citati sopra e fino alla rivoluzione digitale. Certo, era costoso, era per pochi ma tecnicamente possibile e intrinseco nel mezzo. Erano sempre e sono sempre fotografie, queste prodotte con questi mezzi? Dò una risposta che spezzerà i cuori degli ignoranti colpevoli, ma sì, erano e sono sempre fotografie perché ogni componente di quello spazio bidimensionale è nato con il procedimento che dà il nome alla tecnica e a quel foglio bidimensionale: fotografico, fotografia. La fotografia è sia il procedimento che il prodotto di un’applicazione tecnica e questo ci causa problemi di linguaggio da due secoli. Se io produco un’immagine con procedimento fotografico, anche se l’immagine ritrae un modellino, quindi è un qualcosa di costruito, sto facendo sempre una fotografia. E qui spezziamo questo mito della fotografie e del tempo della fotografia che cattura qualcosa di vero. La fotografia cattura qualcosa di reale nel senso che cattura qualcosa che è stato investito dalla luce. La verità non centra nulla. Dispiace per i cuori che stanno rimanendo a brandelli. Tutte queste cose hanno reso la vita di fotografi di ricerca e sperimentatori, che producono fotografie adoperandosi in manipolazioni e ibridazioni, un vero inferno. Le porte del mondo fotografico gli sono state precluse perché ‘questa non è fotografia, questa è una roba concettuale è più da mondo artistico’…e anche il mondo artistico non ha saputo che farci con questi fotografi ‘è roba fotografica, prova a sentire qualcun altro’. Due mondi che non sapendolo sono uno solo e che si basano sulla totale ignoranza e sull’uso di un linguaggio sbagliato. Ovviamente quando gli pare a loro, quando non c’è l’affare quando non c’è un fotografo con un certo pedegree. Adesso questi signori, che quando gli sovviene aprono le loro porte a – sempre troppo pochi – questi fotografi ricercatori, parlano con fare di ecumenico dell’AI, e del dibattito aperto. Ne parlano perché hanno fiutato l’affare, perché, già ignoranti loro, hanno fiutato che possono fare il cavolo che gli pare abusando di questo colonialismo dell’approssimazione. Photo editor che per anni hanno rifiutato la ‘fotografia concettuale’ ora pubblicano fotografi che adoperano la manipolazione o artisti che creano immagini attraverso algoritmi. Badate bene, va bene, la ricerca va bene, aprirsi va bene ma chi è stato escluso perché era troppo avanti? Mi viene da dire che chi era ed è avanti, con questi qui, rimane sempre indietro ed escluso. Le immagini prodotte con l’AI sono una grande risorsa: ci danno la possibilità, ancora di più, di fare ‘come se’, ampliando i nostri immaginari, cosa della quale ce n’è sempre tanto bisogno. Possono aiutarci negli storyboard, nei bozzetti, nel fotomontaggio, aprono le porte di immaginari potenzialmente fruttuosi, se solo si usassero con pertinente conoscenza, apertura e umiltà. Facciamo un passo indietro e chiediamoci: chi ha addestrato l’algoritmo a far corrispondere determinate immagini ‘realistiche’ in base ad un dato prompt? I Sapiens. E con che cosa hanno addestrato l’algoritmo? Con le immagini, con gli immaginari che come Sapiens abbiamo in dotazione, e con quanto prodotto dalle culture visuali che hanno caratterizzato le nostre epoche. Ecco che quindi l’AI, sempre più perfezionata, riesce a produrre, sempre più fedelmente alle idee visive che abbiamo, immagini ‘che sembrano vere’. Che caspita vuol dire vere? Che sembrano fotografie? Basta la somiglianza retinica a far somigliare un’immagine ad una fotografia, o peggio a far dire che è una fotografia, a categorizzarla, nominarla come fotografia? Ma davvero abbiamo questa dissonanza linguistico-cognitiva? Quindi un quadro iperrealista, oltre che doversi sentir dire ‘sembra una fotografia’, potrà anche essere chiamato ‘fotografia’? Quindi se l’AI riesce a produrre immagini che ricalcano procedimenti pittorici le chiamiamo pitture? La fedeltà alla realtà, in senso retinico, non può chiamare le immagini che la possiedono fotografie. E’ il procedimento di produzione che determina la fotografia. Non la fedeltà alla realtà. Questa confusione è una semplificazione del nostro linguaggio, un impoverimento colpevole di ignoranza, che ha propinato ignoranza. Una bicicletta motorizzata la chiamiamo ‘automobile’ o ‘ciclomotore’? C’è da sempre stata questa corsa morbosa tanto pari al disprezzo che ha ricevuto la fotografia, a dover chiamare le cose con nomi che non gli appartengono, quindi a chiamare fotografie addirittura cose che non lo sono, anzitutto per procedimento e poi per uso. E’ come quando disprezziamo l’arte ma per fare un complimento a qualcuno usiamo quel modo di dire che fa ‘è bravissimo, dovrebbe fare l’artista’. Ma perché?Basta il fatto che l’AI produca file in jpg perché siano fotografie?
Dicevo, non abbiamo fatto in tempo a toglierci di dosso gli atteggiamenti ortodossi novecenteschi sulla fotografia che ora dobbiamo ritrovarci come dei manichei a distinguere cosa è fotografia e cosa non lo è. E vedere addetti ai lavori che ci si tagliano, con argomentazioni alle quali manca sempre un pezzo, equivale alla morte dell’animo e dell’intelletto. Meno conosci più straparli, la conoscenza dà un metodo, l’approssimazione no. E si vede quando le cose sono approssimate perché, proprio dato che il linguaggio è fallibile va usato al meglio, le cose vanno chiamate coi nomi che gli corrispondono. E’ in questo modo che possiamo davvero aprire il dibattito sulle AI. Altrimenti non si arriva, anzi, siamo già al declino cognitivo totale. Se gli addetti ai lavori non possono garantire un uso congruo della conoscenza come possono fare il loro lavoro, come possono aiutarci a capire? Semplicemente non possono, non lo sanno fare e, nei casi più gravi, come detto sopra, non gli conviene. Spesso noto come i grandi fotografi stessi dicano delle castronerie, imbrigliati da un successo al quale non corrisponde una necessaria conoscenza di fondo di ciò che vanno blaterando e mi è capitato di sentirli dire: ‘ho fatto queste immagini quando non c’era Photoshop’, ‘è impossibile documentare la vicenda del virus perché questo è infotografabile’ e tutt’ora molti fotografi che parlano di AI – nel bene e nel male – ripeto, come molti addetti ai lavori, argomentano anche con senso ma sono manchevoli nelle basi, si vede dal linguaggio che usano e da come. Se gli addetti non se ne accorgono è perché non sanno nemmeno loro o perché fiutano il mero affare economico. Questo è neoliberismo. Un affare economico di successo e prosperità, in arte, dovrebbe portare conoscenza, non solo una foto o un’immagine sopra un divano, no incentivare i fotografi/artisti solo per ‘i prodotti’, ma per la preparazione che hanno, abbiamo abbandonato la preparazione a fronte di un generico talento ed ecco che chi fino a sei mesi prima era un amatore si trova a fare il professore, ed ecco che a seguito di ‘belle immagini’ si sopravvaluta la preparazione di qualcuno, non apro qui il discorso sulla professionalità. Dato che ‘una quercia non diventa un ulivo’ siamo ridotti così. ‘L’approccio autoriale con le immagini artificiali si va a perdere a meno che non rivediamo cosa vuol dire fotografia’: è una grande castroneria. Ciò che differenzia una foto da un dipinto o da un’immagine digitale non è il suo appiglio alla realtà è la modalità di produzione. Questa frase l’ho letta, da un photo editor e sarebbe da mettere al bando perché imprecisa quindi pericolosa. Ontologicamente non si può pensare di inglobare qualcosa nel fotografico se fotografico non è. Nemmeno ad esempio andrebbe usata questa frase perché è sbagliata, ontologicamente sbagliata. Se si conoscessero, dunque, le definizioni e si usassero, non ci sarebbe bisogno di dire cosa è fotografia e cosa non lo è, rasentiamo il ridicolo. Invece che pensare di inglobare l’AI nel dibattito fotografico, pensiamo a inglobare chi è stato sempre escluso perché spingendosi ai limiti del mezzo ha fatto ricerca (queste definizione l’ha data Attilio Colombo, no Peppe della bassa). L’AI produce fotografie perché sono file in jpg o png o perché sono immagini con una grande verosomiglianza alla realtà? NO. L’AI va inglobata nell’ambito delle arti visive? Sì, senz’altro. L’AI va conosciuta prima di essere usata? Sì. Se la fotografia così democratica, specie quella digitale, ha causato tanti problemi quante delizie, se i Social hanno causato tanti problemi quanto delizie, perché in entrambi i casi nessuno si è degnato di educare la popolazione all’uso (c’è anche da dire che le cose contemporanee si capiscono vivendole) a partire dalle scuole (e qui torno a propinare l’importanza di educare alle immagini e alle parole in quanto come specie le usiamo e con i Social ancora di più e gli effetti possono essere terribili), ecco, l’AI è quella volta buona dove il collasso cognitivo non rischia di continuare ad essere in atto, ma avverrà. La volta crollerà. E’ un grande rischio di specie ma con questi presupposti di ignoranza e dolo c’era e c’è da aspettarselo. Tempo fa scrivevo che non bisogna gridare alla catastrofe a causa dell’AI perché dipende dall’uso che ne facciamo, ebbene, dati questi presupposti – di aprire o meno la fotografia a una cosa che non è fotografia – mi sembra che il dardo è tratto. L’unico riparo possibile è la conoscenza. Nei più ampi spazi delle arti visive (nei quali la fotografia tutt’ora, a volte, fatica ad essere annoverata) deve esserci spazio alle ibridazioni del fotografico (post e meta-fotografia) ma non solo, deve esserci anche spazio per le immagini create con le nove tecnologie, purché non diventino un giochino e purché se ne faccia un uso portato da una consapevolezza dei medium. Altrimenti rimaniamo anche qui nel dibattito novecentesco. Apriamo i confini purché si sappiano altrimenti che cosa ibridiamo? Questo è un tempo che apre alla fluidità ma senza aver ben definite le ontologie delle cose, quindi c’è un grande rischio di cadere nel caos. Se partissimo con pertinenza dalle definizioni, non staremo qui a dire cosa è fotografia e cosa no, vedete quanto costa non conoscere le cose e cercare di tirare l’acqua al proprio mulino continuando a propinare ignoranze varie? Il dibattito che gli addetti ai lavori dicono aperto, non lo è, perché con questi presupposti non può darsi conoscenza, né aprirsi alla ricerca, si dà solo l’osso ai cani che si sbranano. Il fatto che non favoriscano informazione sana vuol dire che non sanno e/o che non gli interessa. Difendere la fotografia asserendo cosa lo è e cosa no, non vuol dire che chi scrive sia una purista o che stia difendendo solo un certo tipo di fotografia, che so, di documentazione, anzi, sono una frequentatrice dell’ibridazione della fotografia con quanti più medium e forse il mio successo come artista si deve proprio a questo. Sto difendendo, definendole, tutte le declinazioni del fotografico. Sto accogliendo tutte le ibridazioni possibili del fotografico, sto accettando tutte le forme di arte visiva purché abbiano metodo e aprano le porte alla conoscenza. Come accolgo tutte le istanze delle arti visive purché sussistano i presupposti detti sopra. Parliamo di AI, conosciamo, educhiamoci ad un uso consapevole, ampliamo le sezioni dei festival con le arti visive, perché se ai festival dichiariamo di fare ricerca va bene ma se facciamo festival di fotografia ed esponiamo immagini create con gli algoritmi c’è un problema di dichiarazioni, la divulgazione viene meno, si genera confusione e rabbia negli utenti frustrati da un mondo schizzofrenico e da una critica che propina il giochino del momento quando gli conviene. Cerchiamo di svolgere una ricerca di senso, cosmogonica, di nuove possibilità di azione e di pensiero, attraverso le immagini dell’AI, non c’è bisogno di chiamare in causa la fotografia per legittimare l’AI, per farlo c’è bisogno di conoscerla. La conosciamo?