Ogni esperienza mi mette davanti le mie ombre e mi chiedo, ogni volta, se io sappia o quanto sappia fotografare – costantemente messa in discussione dalle circostanze e della mie stesse paure – ma che vuol dire ‘saper fotografare’ e cosa è per me farlo, specie alla luce di progetti che sono anzitutto di esperienza e poi la messa in campo di competenze atte a ottenere immagini nate proprio da questa esperienza? E parlo di ‘immagini’ perché non ho interesse a stare dentro i binari di una modalità di produzione piuttosto a usare ogni mezzo utile a rendere visibili le mie idee. Ma quanto la committenza, le richieste, influiscono e devono farlo? Ad un autore si possono chiedere cose che non gli attengono? Che senso ha chiamare un autore e chiedergli cose che non fanno parte della sua pratica? Si può criticare un autore per come usa i forma di luce e colore? (che ne costituiscono il linguaggio) e se lo si fa, perché lo si è chiamato? Può bastare a giustificare questo la voglia di spronare l’autore ad imporsi meno limiti? Chi decide quando i format di un artista diventano dei limiti? E chi è che decide se l’autore ha davvero fatto un passo più in là rispetto se stesso e i suoi limiti – l’autore o la committenza? Se si chiama un impressionista gli si può criticare di non essere realista? Chi è confuso, l’artista che accoglie – e anche sopporta le ingerenze, spesso inutili, e lavora cercando di fare del suo meglio senza alzare muri – col rischio, comunque, di snaturarsi, il committente? Siamo sicuri che il committente farebbe con tutti così o, in caso si trovasse a lavorare con un ‘fotografo top gamma’ non si azzarderebbe? Quanto dovrebbe farsi pagare il fotografo a fronte di un dispendio così grande? E se il progetto è realizzato dal basso vale a giustificare queste ingerenze? Quanto può essere fatto in un arco di tempo limitato e dal basso, a fronte di richieste più speculative che altro? Chiamare un fotografo che non lavora, ad esempio, con la staged photography, e chiedergli di farlo, può essere uno stimolo per lui? Può risultare così? Può il fotografo, sentirsi dire o il peso, di non aver rispettato il brief perché non ci sono persone che rendono comprensibile l’opera? E chi ha detto che le persone, nelle foto, facciano davvero questo? Non è che mettere una donna dentro un lago sia comprensibile o evocativo. Di sicuro, senza un forte storytelling dietro, si evoca un’icona, un qualcosa di già visto dove, per aiutare la gente a capire l’opera, si entra subito nel buon senso comune che non aiuta l’arte e chiama subito il famoso ‘ero bono anche io’. Ma le piccole realtà che chiamano gli artisti, sono davvero consapevoli di quello che fanno? O hanno un’idea talmente scolastica che pensano davvero di lavorare con qualcuno che gli fa le figurine? Quanta arte è stata prodotta da queste ingerenze? Noi qui a disquisire del genio dell’artista ma quanto, effettivamente, l’artista è libero di adattare il brief alla propria ricerca? Che arte vedremmo senza l’ingerenza della committenza? (La stessa domanda possiamo legittimamente volgerla così: che arte vedremo se l’artista non badasse alla sua zona di comfort, a ciò che funziona?) Che tipo di mecenatismo possiamo fare oggi, senza lasciare liberi gli artisti? (Sì, la leggenda che i limiti sono opportunità è comunque vera.) Perché dire ‘sei libero ma’ non è lasciare libero un artista ma affidargli un carico non indifferente. La sua maestria, dunque, non sarà solo e tanto sull’opera, ma sul percorso evolutivo che l’artista percorrerà in questa circostanza. E anche in questo caso, c’è da diffidare degli artisti che rimangono uguali a come erano prima della committenza. A volte ci si imbatte in tematiche o soggetti ‘impossibili’ da rappresentare. Che cosa vuol dire? Che sono oggetti-soggetti assenti, che si sono modificati nel tempo, che sono immateriali…. tutte cose che implicano una ricerca e una rappresentazione indiretta.
A volte capita che si necessiti di un linguaggio nuovo perché non si hanno a disposizione linguaggi e strumenti utili. Gli archetipi, a tal proposito, sono dei portatori di significati universali, perfettamente adattabili alle lingue e ai tempi che li raccontano. Gli archetipi sono delle matrici narrative che, nella loro costanza, si modificano nel tempo e la cui struttura profonda, però, rimane immutata come il suo significato e potenziale. Anche queste forze inconsce – che hanno plasmato i Sapiens – nei millenni, si sono dovute creare strutture linguistiche, lingue, locuzioni, segni e simboli atti a rappresentarli e trasferirli nel tempo. Tanto più sono arcaici tanto più sono pertinenti, potenti e profondi. C’è un punto, forse, dove icone e archetipi si toccano. E’ il punto dell’universalità della riconoscibilità e della potenza delle immagini. Tuttavia, queste possono cadere nel buon senso, nelle ‘banalità’, gli archetipi mai, perché provengono dalle strutture profonde della psiche, personale e collettiva:Anima mundi e Imago mundi insieme. Per un artista il problema dell’originalità sembra essere un vero e proprio problema di status, ontologico. Ci sono vari livelli per affrontare la questione, dal più elementare al più strutturato:
- originale o meno, l’opera prodotta attraverso la creatività è il risultato di una pratica umana necessaria ai sapiens, quindi benedetta e benvenuta.
- Gli archetipi ci insegnano che in spazi-tempi diversi accade che vengano prodotte opere simili.
- Ci si può lasciare ispirare o si possono adottare: metodologie visive e di produzione simili ad altri, se quanto già prodotto è di ispirazione. Niente nasce dal niente. A questo va aggiunta una dose di onestà intellettuale laddove ‘il prestito’ sia veramente cospicuo. L’ego in questo non aiuta.
- La domanda da farsi, specie se si lavora con icone o con temi famosi, o comunque sempre, è: cosa può portare di nuovo il mio contributo a questo tema? Che visione ho da offrire? (e qui chi non lavora su se stesso è messo male). Non si tratta di essere nuovi ma di far parlare la propria essenza, il proprio genio. Anche questa parola è usata male. Noi la usiamo nel significato di ‘qualcuno di eccezionale’ ma dovremo riflettere sul fatto che ognuno ha il proprio genio, inteso come unicità, talento, dote, qualità, ed è una cosa che la natura ci dà per servire gli altri, questa ‘cosa’ va portata tra gli altri. E’ lì che il genio ha valore. Lavorare su sé stessi è un servizio per gli altri. Capire e seguire questa cosa è il primo, fondamentale, passo, raffinarsi nel corso della propria vita un altro e questi passi sono forse il senso di fare arte. Potremmo definire l’arte, alla luce di ciò, come ‘il percorso di raffinamento che l’artista fa durante il suo percorso, l’acquisizione e il miglioramento della propria maestria attraverso la profonda consapevolezza di sé’.
Queste riflessioni servono ad essere consapevoli rispetto ciò che creiamo, dandogli un contesto e quindi dando la nostra consapevolezza all’originalità, specie quando si lavora con soggetti-icone. L’artista dovrebbe essere chiamato non a fare il compitino raccontando uno status quo ma a riscriverlo attraverso la propria dote. Tornando all’uso delle icone: usarle, piegandole al proprio talento. Mettere una ragazza in acqua non ne fa automaticamente una ninfa. Per il buon senso popolare sì ed è comunque un bene accogliere nel proprio lavoro l’intellegibilità di cui dispongono gli altri. Ma l’artista crea partendo da sé stesso perché, quello sincero, dà a vedere qualcosa di sé stesso. Quello che fa di quella ragazza in acqua una ninfa sono gli elementi che usiamo, la luce, le storie alle quali facciamo appello settando la scena e/o scrivendo la nostra sceneggiatura: la fonte da dove attingiamo il sapere, è questa che trasforma una ragazza in acqua in una ninfa. Questo vale, comunque, per tutte le foto-icone prodotte coi più disparati ‘generi’ fotografici. Esempi: la pietà in fotografia documentaria e di guerra, o in staged photography o nell’ermeneutica; i baci rubati per strada; le rockstar ritratte mentre suonano (ricordo decine di foto di Patti Smith e Mark Lanegan fatte da fotografi diversi che li ritraggono con la stessa posa ed espressione, tutte uguali e buone allo stesso tempo). Capire dove sta il nostro genio e cosa vuole esprimere, questo è importante, anche di fronte al brief di una committenza.
Ecco qui, allora, i nuovi linguaggi, il nostro alfabeto, il dare forma all’irrappresentabile. Diventare mecenati, quindi, non può solo essere una transazione economica ma un’azione con al centro l’artista e l’evoluzione che può fare del suo genio grazie alla committenza. Allora, aprirsi alle discussioni e alle ingerenze altrui può davvero assumere un altro significato e divenire esperienza. Certo, per questo, l’artista ha bisogno di spogliarsi dell’armatura e osservare dove le forze inconsce che emergono lavorano, e capire chi può diventare e cosa può fare alla luce dell’accettazione dell’esperienza. Rifiutare le rotture o accettarle solo a fronte di cospicui pagamenti coprendosi dietro il professionismo è solo un modo per chiudersi nella torre d’avorio. So che la società è impostata in modo diverso ma vale la pena cambiare le cose e anche se non sembra, farlo da sé stessi è più comodo, più facile, perché è così che si cambia il mondo da casa. Una forma di pagamento (produzione dell’opera, residenza, acquisto dell’opera, compenso) è uno scambio di energia. Più ti viene offerto e più tu hai bisogno di corrispondere quel carico. Ecco quale può essere una differenza tra professionista e amatore: a livelli alti di energia è richiesto altrettanto sforzo. Le opere dovrebbero costare in base all’energia impiegata, al percorso dell’artista. Chi ha paura, dunque, della committenza?
Mi viene in menta una frase di Luigi Ghirri: ‘sono pagato per pensare’.