‘Antropocene’ è una parola molto usata come ‘storytelling’ e ‘resilienza’, tuttavia, come queste, è spesso usata in modo scriteriato, con mero spirito retorico quando non ingenuo e depauperante il suo significato e il suo potenziale. Come le parole sopra citate, rischia di divenire una parola vantaggiosa solo per i titoli di giornali utili a mettere il cervello in affitto con un clik. Da un punto di vista narratologico, ormai, la parola ‘Antropocene’ porta con sé un vero e proprio storytelling diffuso (e confuso).
Ho iniziato ad interessarmi all’argomento ‘Antropocene’, portandolo anche in classe, quando ho capito che la fotografia è un grande strumento antropologico perché di fatto, attraverso di essa possiamo davvero adoperare, e lo facciamo da quando è nata, uno studio dell’uomo sull’uomo. Il primo indizio di ciò lo danno le scienze sociali e la stessa antropologia, coetanea della fotografia, più o meno, quando hanno iniziato a sostituire i disegni degli illustratori con le fotografie per di-mostrare gli oggetti di studio (spesso indigeni colonizzati). Entrambe, la fotografia e l’antropologia sono figlie del positivismo, una corrente di pensiero sviluppatasi nella parte del mondo ricca e colonizzatrice che aveva massima fiducia nel progresso e nella scienza. Del resto, come vogliamo riassumere, seppure alla buona e anche precedente al positivismo, il periodo delle scoperte geografiche e scientifiche che hanno segnato l’avvento della società moderna, e di come si sono evolute insieme se non attraverso la fiducia nel progresso e nella scienza? (Tralascio i motivi geopolitici ed economici.)
Qualsiasi ambito della fotografia noi pratichiamo lo facciamo su di noi in quanto Sapiens. E’ sempre un essere umano quello che immagina, mette in scena, documenta, o fa autobiografia attraverso la fotografia. Sembra un discorso riduzionista, ma se pensiamo al potere di svelare, far conoscere spazi-tempo lontani, e storie disparatissime tra loro, non lo è poi molto.
Ebbene, se parliamo di Antropocene come di quest’era di cui tutti parlano e pochi sanno, allora può emergere che tutto il nostro mondo, come lavoriamo, come facciamo arte, è inserito nel ‘sistema Antropocene’, perché l’Antropocene, l’era che stiamo vivendo, è anche un fatto culturale che riguarda (anche ed ormai) il nostro immaginario collettivo. Voglio sollevare delle riflessioni sul modo di fotografare nell’Antropocene, quindi di come adoperiamo la creatività e gli strumenti del sapere quando creiamo i nostri ‘prodotti visuali’. Come sostengo in un precedente articolo (fotografia e pandemia), la pandemia ha evidenziato cosa non va nel sistema, ogni settore ne è pervaso, lo dico meglio: la pandemia ha evidenziato in via definitiva il collasso cognitivo che la nostra società sta vivendo già da un po’: o ci evolviamo o moriamo. La vera chiamata alle armi, in realtà, non è evolversi o morire, si campa ugualmente, ma evolversi o dormire, non accorgersi delle possibilità che il sistema, anche quello del sapere, con tutti i difetti, offre, non accorgersi che le metodologie di lavoro di prima non possono funzionare più o non andare sempre bene. C’è chi porta avanti una fotografia tradizionale e novecentesca ed è sacrosanto ma è impensabile, però, non capire che il 900 è finito da più di 20 anni e che molte cose sono state fatte nel frattempo e che conoscere equivale ad un arricchimento. E questo vale per la produzione di arte e anche per come lavoriamo nel sistema dell’arte. Sarebbe bello, quindi, accorgersi della vastità dei saperi e delle risorse che questi offrono alla creatività fotografica, anziché solo dell’iper specializzazione. Accorgersi è un primo passo per usare, per sapere che una cosa esiste, è già averla a portata di mano. Un modo, questo, che svecchierebbe di gran lunga il sistema-fotografia e renderebbe i nostri cervelli meno pigri, compresi quelli dei ‘selettori all’ingresso’ (o all’ingrasso, vedi sotto).
Come auspico la fotografia, quindi? Dobbiamo iniziare a parlare ed attuare delle vere e proprie cosmogonie, adoperando delle operazioni mitopoietiche che usano la vastità anziché la specialità. Dobbiamo lavorare su un linguaggio, sano, corretto e comune, quand’anche condividerne altri. Auspico di lavorare in modo corale ed etico (molti meccanismi economici – organizzativi del sistema-fotografia sono esattamente la copia di quelli neoliberisti) senza snobbismi di classe, cercando di divulgare e collaborare, abbandonando il professionismo: non più intendendolo come qualcosa di settario bensì come una risorsa. Tuttavia, soprattutto e per prima cosa, bisogna attuare delle riflessioni sul talento: il talento non è qualcosa che serve a farci brillare, il talento è qualcosa che la natura ci mette a disposizione per contribuire al sistema-mondo, il talento ci mette al servizio degli altri, qualunque sia il talento che possediamo. Quindi, oltre che a ragionare in termini meritocratici, che scardinerebbero le logiche del sistema-fotografia, bisognerebbe anzitutto ragionare sullo scardinamento del concetto di ‘talento’, revisionarlo, renderlo al servizio degli altri e per gli altri e non coltivarlo per presunte glorie economiche o di fama. Poi anche il professionismo avrà un altro sapore, come lo avrà insegnare e come lo avrà fare fotografia, a tutti i livelli, qualora accogliessimo ed adoperassimo la vastità, il meticciato di linguaggi anziché la specializzazione. Per la serie: lo vedi questo talento? Coltivalo perché non è tuo.